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Bibliografia 253

del documento. Nessun altro indizio nè formale nè reale si trova nella lettera il quale accenni ad una falsificazione, e però il documento si dovrà ritenere per autentico, almeno finchè non sarà dimostrato che tra il 731 e il 737, cioè mentre Orso era doge e Gregorio III pontefice, una spedizione dei Veneziani a Ravenna fu affatto impossibile. Ma non è cosa agevole il dimostrare questa impossibilità, perchè, come risulta da Paolo Diacono, Liutprando non fu sempre impedito durante quegli anni da altre guerre o da malattie o da altri ostacoli, nè la spedizione dei Longobardi nell’Esarcato attestata dalla lettera di Gregorio ad Orso esclude quella tra l’agosto 739 e il dicembre 740 della quale fa menzione la nota lettera di Gregorio a Carlo Martello1. In tutto quel periodo ho preferito come epoca della spedizione di Liutprando gli anni anteriori al 755, perchè nelle testimonianze circa quell’avvenimento, Ildeprando non è rappresentato quale collega al padre nel trono.

Di fronte all’autorità del documento hanno meno valore le testimonianze dei cronisti, tanto più che scrissero a qualche distanza di tempo da quei fatti e ne poterono confondere l’ordine cronologico, la quale cosa pure talvolta succede anche negli scrittori che narrano gli avvenimenti ad essi contemporanei. In prima linea per la sua antichità e per il nome dell’autore si presenta la Historia Langohardorum di Paolo Diacono. Nel cap. 54 egli ricorda l’invasione degli Arabi nella Gallia e la loro sconfitta a Narbona nel 737, quindi la nuova invasione dei medesimi nella Provenza nel 738-739 e la loro sconfitta per opera di Liutprando; poi egli narra le guerre di quel

  1. È l’ep. 2 del Codex Carolinus, edito da Jaffé nella Bibliotheca Rerum Germanicarum IV, 15. Le devastazioni ricordate dal papa in quella epistola si riferiscono alla campagna del territorio di Ravenna e forse in particolare ai fondi rurali che appartenevano alle chiese («id quod modicum remanserat praeterito anno pro subsidio et alimento pauperum Christi seu luminariorum concinnatione in partibus Ravennacium nunc gladio et igni consumi»). Il Pinton crede che vi si debba includere anche la città di Ravenna «perchè il territorio dell’Esarcato stava nelle mani dei Longobardi da parecchio tempo, nè quindi c’era ragione che lo mettessero a ferro e a fuoco, mentre ciò si spiega nella presa d’una città che aveva resistito». A me non sembra, perchè la lettera non accenna in verun modo alla città, ma piuttosto alle terre delle chiese o anche dei privati che per le devastazioni non potevano più pagare le decime; inoltre se queste devastazioni sono rappresentate nella lettera come nuove rispetto a quelle dell’anno precedente, non è dimostrato che nell’anno precedente i Longobardi avessero occupato tutta la campagna di Ravenna. Il documento può benissimo attestare che una pane di essa in quell’anno non era stata ancora da loro nè invasa nè devastata. La devastazione era la conseguenza immediata della occupazione, essendo gli abitanti, e particolarmente il clero, ostili ai Longobardi. Anche entro la città vi saranno stati degli spazi coltivati, ma la loro estensione complessiva non poteva essere che minima a paragone degli altri. Del resto le parole del papa, specialmente rispetto alle devastazioni dei Longobardi nell’Agro romano, non devono essere prese alla lettera, ma come frasi iperboliche.