tradizione antica della politica papale, e, più che ai soli bisogni, alla vera necessità politica del tempo, l’ho principalmente provato col mostrare due fatti. Primo: che Leone, per ottenere quella rinunzia dalla Francia, e quando questa non era ancora vincitrice, spinse le offerte all’estremo, proponendo, mentre vivevano ancora Giuliano e Lorenzo, che, di comune accordo tra re e papa, la corona di Napoli fosse data, alla morte di Ferdinando, ad un principe, dal quale la Santa Sede non avesse a temere, designando specialmente il figlio di Federico d’Aragona, nè più nè meno come se il fratello ed il nipote non esistessero. Secondo: che Leone, morti Giuliano e Lorenzo, continuò costantemente, rispetto alla richiesta per Napoli, l’istessa politica verso la Francia, e l’estese anche alla Spagna, quando Carlo ne divenne re; nè più nè meno come se - qualora supponessimo, per poco, vera la ragione che movente di tale politica fosse l’ambizione di famiglia - fratello e nipote vivessero ancora. L’averli Leone posposti entrambi ad altri per la corona di Napoli, quando vivevano, e l’aver egli persistito, quando non esistevano più, nell’istessa condotta di cercare di riavere per la Chiesa tutti i diritti vantati da Francia e da Spagna su Napoli, è cosa che mostra nel modo più evidente che se Giuliano e Lorenzo, ed i disegni che vi si connettevano, ebbero, forse, nelle ragioni della politica papale rispetto a Napoli una parte, questa però non fu di certo la maggiore. Dalla lettera del Quirini non risulta, rispetto al papa, alcun fatto, che contradica a quelli che ho disopra accennati: in nessuna guisa vi si apprende, come vuole il Cian, che le mire di Giuliano «erano in segreto «alimentate ed incoraggiate dal pontefice». Che anzi, se uscendo dal limite costante del modo della mìa indagine e del mio ragionare, volessi dilettarmi, per un momento, del vano giuoco di sottigliezze, potrei spingermi a dire, che si trova anche nelle parole del Quirini una riprova della verità delle mie considerazioni rispetto a Leone; poichè,