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156 | G. Ricci |
È impossibile, allo stato presente almeno delle ricerche, tener dietro passo passo alla storia dell’Arte dei bovattieri nelle sue relazioni col comune. Non mancano però tratto tratto documenti che mostrano che essa mantenne la potenza e l’influenza acquistata. Nel 1310 ai 14 di maggio Clemente V, che era ad Avignone, indirizza così una lettera ai Romani: «dilectis filiis... consulibus bovacteriorum et mercatorum, collegio iudicum et notariorum, consulibus Artium, tredecim bonis viris electis per singulas regiones et populo Urbis, salutem»1. Gli era stato chiesto, per mezzo di ambasciatori, di provvedere al governo di Roma: egli domanda ai legati quali fossero le persone idonee per siffatto incarico; ma i legati non si vogliono pronunziare.
Allora papa Clemente viene nella determinazione di incaricare i detti consoli e buoni uomini ad eleggere «senatorem vel senatores, capitaneum seu capitaneos quoscumque et undecumque volueritis». La città insomma era del tutto in balla delle Arti e del partito popolare, rappresentato appunto da quei tredici buoni uomini, che s’avea eletti. Ma il loro governo fu tutt’altro che pacifico: la città era a vicenda soggetta ai senatori o vicarii, che nominava il papa, od agli imperatori di Germania, che accampavano sempre il diritto dell’impero. Per cessare tutte le discordie i Romani avevano scritto al pontefice perchè tornasse da Avignone2: ma il papa dava soltanto buone parole. Fu allora che i Romani si rivolsero a Ludovico il Bavaro. Papa Giovanni XXII, conosciuta la rivolta del popolo di Roma, scrisse nel 1327 una lettera «dilectis filiis consulibus bovateriorum et mercatorum ac singularum aliarum Artium, viginti sex bonis viris, duobus videlicet per quamlibet regionem, ac populo Urbis»3.