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La «universitas bobacteriorum Urbis» 147

la «forma quae vocatur Sabhatina», giacchè «centum arcoras ipsius forme» erano state «e fandamentis demolitas atque destructas»: la qual distruzione portò grave danno a Roma, non potendosi più macinare il grano, perchè per essa «in Genuculo machinabantur». Cosi pure la forma Claudia: ed è raro trovare un fondo di cui non si ricordino, come sue pertinenze, o le terre incolte o i luoghi paludosi. L’abate di Sant’Erasmo al Celio dette nel 993 a livello una «terra sementaricia posita foris porta Maiore . . . miliario ab urbe Roma plus minus .iv. quae antea fuit paludem»1. Ingebaldo, figlio di Elpicio, refuta nel 1011 al monastero Farfense una terra situata in pantanula2, e Cesario console e duca, figlio di Pipino vestario, cede nell’883 all’abate Stefano3 una «colonia qui vocatur Seminaria . . . cum . . . pantanis cultis vel incultis»; e papa Giovanni XVIII concesse nel 1005 al monastero Sublacense «monasterella . . . duabus . . . cum omnibus finibus, terminis et pantanis»4.

In tanta estensione di terreni incolti, l’unico mezzo per cavarne un frutto era l’allevamento del bestiame, la pastorizia. Nei documenti di quel tempo relativi a fondi rustici, non manca, si può dire, mai la menzione dei pascoli («pascua, cum pascuis»). Nè questo accadeva soltanto nella campagna romana: in generale si osserva che infino al secolo xiii la pastorizia ha il sopravvento sull’agricoltura in parecchie regioni della penisola, perchè le devastazioni si erano diffuse dappertutto e si preferivano delle estensioni di terreno incolto, ottimo per il bestiame, poco danneggiabile dalle invasioni, se queste si fossero ripetute. Nel territorio cortonese, per esempio, nel

  1. Reg. Subl. doc. 105.
  2. Reg. Farf. doc. 613.
  3. Reg. Subl. doc. 6.
  4. Ibid. doc. 10.