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PROEMIO. | IX |
sua officina. Questi dubbj, però, nuli’ hanno essi medesimi in sè di peregrino o di nuovo, e ora si accompagnano a un altro e molto grave dubbio, che è dell’opportunità di manifestarli per le stampe, in brevissimo numero di pagine e quasi improvvisando. Ma è un discorso che anche stampato resterà confidenziale, come è scritto non per altro che per mantenere un impegno.
Il Novo Vocabolario non è già nemico delle indagini isteriche intorno alle lingue o ai dialetti; le più schiette lodi, gl’incoraggiamenti più validi, vennero forse, tra noi, a siffatti studj da uomini che caldeggiano i principj ch’egli rappresenta. Ma questi principj, e quindi l’opera sua, risguardano, egli pensa, ben altro e tutt’altro che non sia la storia o la filosofia delle lingue. Si tratta di un interesse nazionale, grande e pratico; di tal causa di utilità pubblica, dinanzi alla quale tace ogni diritto di conservazione per qualsiasi più ammirabile monumento de’ tempi. Si tratta di dare all’Italia una lingua, poiché ancora non l’ha; e una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non l’idioma vivo di un dato municipio; deve cioè per ogni parte coincidere con l’idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell’intiera nazione. Ora, come il municipio livellatore è Parigi per la Francia, così dev’essere Firenze per l’Italia; come la Francia deve la salda ed efficacissima unità della sua lingua non ad altro che allo scriversi e al parlarsi da tutti i Francesi la stessa lingua che si parla a un tempo e si scrive a Parigi, così l’Italia, che pur deve a Firenze quel tanto di linguaggio che la fa, bene o male, esser nazione, è d’uopo che ritorni a Firenze per rattemprarvi ciò che già ne prese, e prendervi ciò che ancora le manca, ed uscirne agitando sicura il suo pensiero nella ritrovata unità della parola. Qual fatica o qual concessione può parer soverchia per conseguire tanto fine? Ora il dialettologo non nega di certo il male, cioè la mancanza dell’unità di lingua fra gli Italiani, e se ne risente, per ragioni che non monta confessare, più di quanto altri mai possa; nè, per conseguenza, egli sa imaginare opera più meritoria di quella che