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PROEMIO. | VII |
non proviene naturalmente da un capriccio, o da una convenzione, del popolo de’ Quiriti, ma sì è un accidente che ha le sue ragioni organiche e ancora si vede difilatamente risalire a tale antichità, rispetto alla quale sono avvenimenti moderni le storie più rimote; ne viene, che la distinzione che noi abbiamo così perspicua e familiare, tra nuóvo (nŏvus), a cagion d’esempio, e lo̯ro (illōrum), dipende da varietà fondamentali che rannodano, nel tempo e nello spazio, una grande e nobilissima parte del genus homo; è insomma un fenomeno storico, il quale, connaturato e saldo nell’uomo odierno, rivaleggia d’antichità col mondo fossile. Se perciò tra coloro che si affaticano intorno alla storia delle lingue, surga qualche lamento contro il tentativo di menomare o di abolire una tale distinzione, senza che alcun patente bisogno ci spinga a manomettere il prezioso cimelio, e anzi risulti da questo intento un danno manifesto anche nell’ordine pratico della parola; se taluno di coloro, soverchiamente appassionato, trascenda a scrivere, che il tentativo gli sembri addirittura un’offesa o una sfida al moderno sapere; è abbastanza probabile, che anche prima che si aggiunga alcun’altra considerazione, possa avere facile scusa, o perdono, presso i più, lo zelo poco importuno di quei modesti operaj. I quali, inoltre, per effetto del loro mestiere, vedono di continuo, che qualche scarso sviluppo, od avanzo, dell’uó nel provenzale, non toglie che questo particolar continuatore, o succedaneo, dell’ó latino, sia veramente il distintivo più cospicuo della romanità italiana. L’uó degli scrittori fiorentini non coincideva già soltanto con l’uó di Arezzo o d’altre terre circonvicine, ma ritrovava sè medesimo, a tacer dell’Italia meridionale, in molta parte della superiore, come può vedersi anche dai fogli che vanno qui uniti; e così riusciva di tanto più facile che egli entrasse nelle scritture
ancora assai complicate norme che a tutti non riesce di escogitare. Poichè, lasciando il suo avvertimento che molti facciano ancora sentire, in parecchi casi, l’u di buono (s. "buono"), egli scrive novi e nuove (lxiii), e ora bon core (220), ora buon cuore (156); e via così discorrendo. O c’è qui della metafisica, o non c’è un uso fiorentino, o l’uso italiano (che non esiste) sopraffa trionfalmente anche il più accorto Fiorentino che gli si ribelli.