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— Sissignora...

Ferruccio aprì di nuovo l’uscio e si affrettò a chiuderglielo dietro le spalle, come se cercasse di tenerla fuori per sempre.

— Ci vuol altro che vestirsi di velluto, brutta smorfiosa — entrò a dire l’Angiolina subito dopo. — Ci vuol altro che i cappellini e che il fare la carità col sangue della povera gente, sgualdrinetta.

— Che colpa ne ha lei?... — osservò la Colomba.

— Le solite esagerazioni... — soggiunse Aquilino, crollando il capo in aria di compatimento.

Ferruccio, pallido e irritato, stava cercando anche lui una parola di difesa, quando la voce chiara e nervosa del sor Tognino, che risonò sul pianerottolo, diede una scossa ai pensieri dei tre delegati e agitò la zia Colomba, che avrebbe voluto essere già lontana tre miglia.

— Non voglio assolutamente che lei passi di qui — diceva il vecchio suocero ad Arabella. — Sta bene, sta bene, ma può parlare con me senza bisogno di tanti avvocati.

E ancora infiammato in viso, aprì l’uscio e con gli occhi semichiusi, come fanno oltre ai corti di vista coloro che non vogliono vedere, adocchiò gli illustri personaggi che stavano aspettando l’udienza.

Aquilino, volendo prendere una rispettosa iniziativa, dondolò un poco sulle gambe a guisa di una canna e agitando il suo cilindro prese a dire:

— Sono io, caro sor Tognino, io Aquilino Ratta, sicuro: e questi son due nostri buoni parenti, coi quali, per i quali siamo venuti, se lei ha tempo un piccolo momentino, perchè vorressimo, punto primo, discorrere un poco in intuito di quel testamento di quella povera Carolina nostra parente, per la quale...