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Ferruccio, per non essere di aggravio alle zie, procurava di tornar utile in casa, attingendo acqua, portando legna e carbone, uscendo e tornando colla cesta della roba stirata, aiutando la zia Nunziatina a increspare, a incannettare le cotte e i camici, a riscaldare i ferri: o correva al Monte, durante la vendita, per aiutare la zia Colomba a trasportare la mercanzia. Il suo sogno era di poter entrare presso un libraio a far pratica, dove potesse adoperar meglio le cognizioni e l’ingegno, e per un pezzo sperò colla raccomandazione del padre Barca, di essere assunto da un editore di operette religiose; ma sul più bello il libraio fece affari d’autore e fallì. Seguirono giorni di grande malinconia per il povero ragazzo, che si vedeva lungo e inutile. Egli non poteva passar la vita a contemplare la zia Nunziadina, che lavorava le sue dodici ore senza far rumore, tra le tortorelle che passeggiavano in cucina a beccar nelle screpolature dei mattoni. In questi momenti tanta tristezza gl’invadeva il cuore, che se ne trovava il viso molle.

— Come si fa, zia? i posti non si trovano mica sempre secondo i nostri desideri, e io sono stufo di vivere alle vostre spalle, povera gente anche voi. Del resto in cinque mesi che mi trovo a lavorare col sor Tognino, non mi sono accorto ch’egli sia quel diavolo d’usuraio che dite voi. È un uomo d’ingegno, lesto, che lavora come un giovinotto. Ora mi dà sessanta lire e capite, zia, che nel mio caso non è facile trovarle dappertutto sessanta lire.