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mastri di muro (Gioacchino Ratta aveva cominciato anche lui col portar la secchia della calce), piccoli bottegai, venditori girovaghi, quasi tutti con qualche segno del mestiere e della miseria indosso, chi male infagottato nei panni d’inverno, chi livido e fresco nei pochi vestiti della festa.
Un piccolotto nero colla faccia fasciata in un fazzoletto pretendeva di cacciar indietro Giovan dell’Orghen, un poveraccio quasi senza scarpe, col pretesto che non era un parente, ma Aquilino Ratta dimostrò che i pitocchi son tutti fra loro fratelli nella santa miseria.
Il sor Tognino, bello e sbarbato, in abito nero, col cilindro fasciato a lutto, faceva gli onori di casa, tra l’anticamera, l’uscio e il pianerottolo, stringendo la mano ai parenti di riguardo, salutando colla mano in aria i più poveri, alzando le spalle, ritraendo il capo, socchiudendo gli occhi a quell’espressione politica e filosofica, che tradotta in parole verrebbe a dire: — Che dobbiamo farci? — La Sidonia Maccagno, sorella di Tognino, maritata all’impresario Mauro Borrola, sotto un gran cappello alla don Carlos, richiamava ancora gli occhi della gente colla sua bellezza teatrale, che nè i quarant’anni sonati, nè le ciprie del palcoscenico avevano potuto cancellare dalla sua faccia larga e matronale di Norma. Il cavaliere suo marito, glorioso avanzo d’una mezza dozzina di fallimenti, dominava anche lui colle spalle e colla voce baritonale, d’un sonoro accento padovano, con cui in nome dell’ostia seguitava a brontolar contro la folla dei pitocchi, come se avesse pagato il posto e il diritto di brontolare.
Vedendo che una nuvola di questa marmaglia