Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 426 — |
cando di rassicurare la sua voce — il signor Galimberti ha detto che potranno usarmi dell’indulgenza, altrimenti... Quale indulgenza? se è vero che ho battuto le guardie, se è vero che ho slogata una mano, dovrò scontarla per forza con cinque o sei mesi di carcere, con tutta l’indulgenza del mondo...
Egli finì con un sorriso ironico e amaro.
— Che, che... — esclamò essa duramente, con accento soffocato.
— A meno che non ne faccia una più grossa — balbettò coi lineamenti irrigiditi, portando le nocche della mano alla bocca come se volesse mordere.
— Fuggire? che cosa puoi fare, povero ragazzo? tu non devi andare in prigione. Tu non hai fatto nulla di male, non sei un ladro, tu non hai ammazzato nessuno. Hai difeso tuo padre e non si condanna un povero figliuolo per questa colpa. Ora vengo io a Milano. Andremo insieme dai giudici; parleremo a questo signor Galimberti. Capisci che se questa è giustizia noi potremmo, in nome della giustizia, dar fuoco alle case. No, no: non è possibile. Ah, mi diceva il cuore che non avevamo finito di patire. Era qui dentro il presentimento. Io porto la maledizione... Ora vengo a Milano. Tu non devi andare in prigione...
Parlava quasi incosciente, per abbandono, trattando Ferruccio come un vero figliuolo affidato alle sue cure, sconvolta improvvisamente da una ribellione di spirito, che rompeva argini e dighe, non sostenuta che da una irritazione fiera, cieca, audace, che aveva la forza di non lasciarla piangere. Accesa nel viso, fremendo in tutte le potenze più segrete dell’anima, passò sopra al suo stesso patimento e non si accorse