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gente. Parlavano di malanni, di stenti, di malattie croniche, di pellagra e di morti, colla placidezza lenta e rassegnata dei contadini che riferiscono tutto a quel lassù, sul quale la fede dei poveri scarica, insieme alla responsabilità, tre quarti dei proprî fastidi.

E le pareva, sentendole parlare, che appartenessero a un altro mondo o a un’altra razza. L’inquietudine sua la portava a camminare un pezzo per le strade di campagna, finchè sentiva il sole caldo sulla testa. Andava un pezzo a razzolare nel verde, a cogliere fiori di siepe, a cercare le ultime mammolette della stagione rimpiattate nei luoghi più oscuri, qualche volta fin verso la stazione di Rogoredo, o fin dove il canale si affossa e si allarga in un laghetto di acque sorgive.

Il cielo lucido, che si riflette nell’acqua di un color di acciaio, dà agli occhi l’illusione di due lucidi infiniti che si baciano. Arabella fissavasi nel limpido specchio fino all’incanto e lasciavasi trasportare a naufragare deliziosamente in una vertiginosa accondiscendenza.

Forse il suo povero papà era passato di lì.

Qualche volta spingevasi fino al passaggio della strada ferrata presso la stazione, che rompeva con una tinta rosea il verde delle messi e delle piantagioni.

I bambini del cantoniere impararono presto a conoscerla, perchè essa non vi andava mai colle tasche vuote. La loro madre una donna pienotta e sana, la intratteneva di cose comuni, di suo marito, di sè, dei suoi figli. Dopo sette anni di matrimonio, vissuti un po’ dappertutto nei quattro muri d’un casello, essa