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vere colla testa, ma senza cuore. Il cuore era là, alle Cascine, che sanguinava, che lo chiamava.
Non gli era mai sembrata così serenamente bella, così in colore, così calma e padrona di sè, così forte, di una fortezza dolce e terribile. I pretesti per tornare alle Cascine non gli mancavano. E nell’attesa lusingava e faceva tacere la morbosa inquietudine, lavorando faticosamente a redigere il rapporto della situazione finanziaria della casa, un’azienda che, se era ordinata e scritta nella testa del signor Tognino come in un libro, offriva molte lacune e molti gruppi non facili a essere sciolti. Nella selva del bilancio e delle cifre, Ferruccio penetrò con una specie di voluttà, come chi sfonda arbusti spinosi e ortiche per arrivare a cogliere un mesto ciclamino sull’orlo di una roccia.
A questo turbamento doloroso non osava più dare un nome. Ha la lingua umana le parole per questi misteri così profondi? vi può essere una definizione dell’infinito? Possono gli occhi leggere ciò che una mano misteriosa scrive nel buio?
Qualche volta usciva di casa la mattina per portare delle carte all’avvocato, o per recarsi allo studio; e mentre il pensiero seguiva l’oggetto o la pratica, come si suol dire nel gergo del mestiere, il tram di Lodi lo trasportava alle Cascine, come una forza che lo sottraesse e lo rapisse a un còmpito noioso, per avvicinarlo a un dolce spettacolo.
Capiva però che questo giuoco non poteva durar molto. Era necessario ch’egli se ne ritraesse prima che diventasse crudele, come ogni bel giuoco tirato in lungo. E siccome sentiva parlare del Corpus Domini come di un giorno stabilito per mettere una