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ver mandato via il Berretta, che colle smorfie irritava gli spiriti e rendeva almeno grottesca la paura.
Palpando nei materassi gli era capitato di sentire sotto la mano il grosso e il liscio d’una certa borsa di seta, che la povera Carolina era solita portare sul braccio e recare tutte le sere in letto, con dentro, insieme al manuale di Filotea, le più care e gelose memorie, in mezzo ai gomitoli e alla calza. Gliel’aveva vista sul braccio fino agli ultimi momenti, e là dentro, senza dubbio, bisognava cercare il documento, se Giuditta non aveva visto male. La curiosità non ammetteva indugio e titubanze...
Saltò in piedi di scatto, prese di nuovo il lume, traversò la stanza, pose il ginocchio in terra, ficcò la mano sotto, dove aveva sentito prima il grosso, tirò...
Il corpo oscillò sul suo duro giaciglio e mentre Tognino si alzava colla candela in una mano, la preda nell’altra, l’ombra grande della cuffia che il lume prima proiettava sul soffitto, svolazzò abbassandosi sulla parete, si sciolse e lasciò vedere un enorme profilo umano, un fantasma che balzò al capo dell’uomo e l’avviluppò come l’ombra d’un uccellaccio. Fu un colpo di pietra al cuore: ma subito il vivo riprese vantaggio. Alzò il lume, sprofondò l’ombra sfigurata, si volse dall’altra parte, buttò la borsa sul cassettone, ne sciolse i cordoni, la sventrò di tutte le anticaglie che conteneva e vide uscire santini, corone, occhiali, gomitoli; e finalmente una carta ancor fresca, piegata in quattro, che Tognino ghermì, svolse, portò sotto la fiamma.
Era una scrittura grossa, sconnessa, traballante che cominciava precisamente nel nome della SS. Trinità e sotto, dove corse l’occhio saltando il testo, uno