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tavola, che cercò di rimuovere: non era che l’orario delle corse rimasto lì dalla sera prima.
— Se vuol passare...
— Non si sente mica male...
— No, ha riposato. Non me la facciano più patire.
Il vecchio non intese le ultime parole della ragazza. Pose il cappello sopra una sedia e, sollevata la tenda pesante che separava il salotto dal gabinetto, domandò ributtando con uno sforzo supremo la sua puerile trepidazione:
— Permette?
— Avanti — disse la voce di dentro, che sembrò un’altra voce all’orecchio ottuso del vecchio malinconico.
Alla prima occhiata lo colpì la pallidezza quasi spettrale in cui Arabella pareva dimagrita e quasi invecchiata. Davanti alla pietosa apparizione sentì tutte le amarezze, tutti i rancori, tutte le violenze, che da tre mesi andava accumulando in difesa del cuore, precipitare in una rovina desolata. — Ecco che cosa avete fatto d’una povera creatura! — avrebbe detto il cuore, se avesse potuto parlare o pensare.
Il signor Tognino socchiuse un istante gli occhi.
Arabella stava seduta davanti al tavolino da lavoro, sotto la finestra, nella luce attenuata dalle doppie cortine di seta celeste, colle mani occupate in apparenza in un piccolo merletto, che aveva cominciato con un delizioso pensiero nei primi giorni della gravidanza. All’entrare di suo suocero non si mosse. Il suo contegno, senza essere nè sgarbato nè umile, rimase d’una freddezza impassibile. Pareva dire nel suo silenzio freddo e sdegnoso: — Ecco la vostra schiava, che ha creduto per un momento di poter