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domandare a sua nuora se voleva riceverlo. La prima volta l’Augusta fece rispondere che la sua signora dormiva: più tardi, circa verso le quattro, raccolto lo spirito a idee più tranquille, il vecchio prese a salire le scale, faticosamente, forse per la stanchezza, forse per una soggezione nuova che intricavagli, per dir così, la volontà e le gambe.
Un reo di qualche enorme delitto non avrebbe provata una impressione diversa sul punto di essere chiamato la prima volta davanti al giudice. Non era rimorso, non era paura; non era nemmeno vergogna o mortificazione per la cattiva condotta di Lorenzo; o forse in quel suo sentimento di stanchezza e di avvilimento entrava un poco di tutto ciò, misto a una tenerezza, a un desiderio di rivederla, di parlarle, di domandarle perdono, d’ascoltare la sua voce, di trattare con lei un sistema nuovo di vita per l’avvenire... prima che suo figlio lo mettesse alla porta.
— C’è? — chiese all’Augusta, soltanto per provare la voce.
— Sissignore.
— Dov’è?
— In gabinetto. Ha riposato bene tre ore.
— C’è anche sua madre?
— Nossignore, non è ancora tornata.
— E... il signore s’è visto?
— Non si è visto.
— Va a dirle che son qui.
Mentre l’Augusta eseguiva l’ambasciata, il signor Tognino rimase mezzo minuto in piedi colle mani appoggiate alla tavola da pranzo, col cuore stretto e angustiato, in preda a dolorose vertigini che si sforzavano di tirarlo in terra. Vide un gran rosso sulla