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— E tua moglie? — domandò, andandogli fin sotto gli occhi colle mani.

— Senti, dunque.

— È tua moglie? — ripetè con un tono, con uno sguardo che non ammettevano indugio.

— Sì, ma...

— Allora lo restituisco a te... — e cavandosi con uno strappo lungo e violento l’alto guanto di Svezia, collo sforzo irritato e raccapricciante di chi leva la pelle a una biscia viva, lasciò cadere la mano con un colpo forte sul viso largo del Bomba, che barcollò, si appoggiò all’uscio, e mormorò chinando la testa:

— Olimpia, che cosa fai?

— Aggiustatevi tra voi. Già sapevo che tu sei un imbecille.

— Scusa...

— Vammi fuori dei piedi... — e gli scaraventò addosso una boccetta d’acqua odorosa. Buon per lui che il colpo andò perduto.

Olimpia si strappò i braccialetti e la collana e pezzo per pezzo li buttò ai piedi di quel grosso imbecille, che stava appoggiato al muro, come un uomo sotto una gronda in attesa che si sfoghi un temporale.

Quando nel guardarsi nello specchio essa scorse sulla gota destra il segno e quasi il solco dell’oltraggio ricevuto, non avendo altro modo di vendicarsi, investì nuovamente Lorenzo, lo coprì di vituperi e di trivialità rimestate nel crudo linguaggio del palcoscenico e della bottega paterna. (Suo padre era uno zoccolaio di Pavia.)

— Tu mi darai una soddisfazione... — soggiunse,