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La promessa che aveva fatto il signor Tognino d’interessarlo nell’azienda di S. Donato non aveva ancora portato a nulla, perchè la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto e dovuto far di più.

Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia, che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario?

Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrerne personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un’aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo il cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi.

La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia?

La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste, e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac.

Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d’approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero e di consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d’irritare