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La candela di sego col lucignolo che faceva il fungo nella fiamma, pareva anch’essa annoiata di far chiaro ai mobili del salotto, che appoggiati colle spalle alle pareti, mandavano di tempo in tempo dei gemiti di stanchezza dalle giunture.

«È ridicolo alla tua età aver paura dei morti — seguitò il Berretta con un burbero rimorso di coscienza. — È ridicolo: ma è pur vero che questo morire è una figura birbona. Oggi sei sano, vispo come un pesciolino, ti piace il vino bianco e la buona compagnia e domani flich, sei un brutto macaco non buono nemmeno per essere imbalsamato. Nemmeno buono a far legna, sei: ma un essere che puzza, sei; e ti casca il naso, ti cascano gli orecchi, Dio spaventato!»

La predica mentale fu interrotta un’altra volta da un passo che veniva su per le scale, urtando coi piedi nei gradini. Il passo si avvicinò all’uscio e andò oltre. Non era il sor Tognino. Di sopra abitava il cuoco di casa Mainona, che tornava spesso a casa collo spirito santo in corpo. Vi abitava anche una cantante, che da un pezzo non cantava più, se pure aveva mai cantato qualche cosa la bella e incipriata sora Olimpia. In certe ore vi andava un vecchio colonnello... Una volta ci andava anche il sor Lorenzo, quel caro figliuolo del sor Tognino, detto il Bomba: e così mentre da una parte il padre avaro sparagnava il centesimo, tirando la pelle in capo agli operai, il Bomba gettava i marenghi in questo pozzo. A padre avaro figliuolo prodigo, a padre furbo figliuolo bislacco. È una legge così, è una tragedia così, la vita. Di sotto una vecchia di ottant’anni che fa la sua ultima smorfia sull’assa, colle gambe in due calze