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all’uscio, e cacciasse la testa tutta quanta nel vano del caminetto.

Per non irrigidire nella paura, che è la più gran cosa fatta di niente, il portinaio, che non aveva ereditata da natura un’anima di drago, due o tre volte si sforzò di ragionare su cose inconcludenti, di appassionarsi, di accalorarsi nei pensieri, di ripetere gli avvenimenti della faticosa giornata suscitando in sè stesso dei rancori e delle smanie, per aver un motivo di brontolare e di rompere quel tremendo silenzio di morte, destando degli stimoli d’egoismo colla prospettiva d’una grossa mancia, o d’un lascito, o di qualche regalo. La vecchia Carolina Ratta nei dodici, o tredici anni dacchè era venuta ad abitare in Carrobbio, (prima stava in Borgo di San Gottardo), si era sempre servita di un Berretta come una serva adopera, parlando con poco rispetto, una scopa che ha sotto la mano. I portinai sono la scopa degli inquilini. — Berretta, mi fate un piacere? — gli pareva di sentirla negli orecchi la voce tremula e fessa della vecchia ottuagenaria. — Mi comprate il tabacco, Berretta? Badate che sia albania. — E non dava mai un soldo, l’avaraccia, salvo il rispetto ai morti. — Berretta, la mia gatta l’avete vista? — Anche questa: gli era toccato qualche volta di girare mezza la casa dal solaio alla cantina, in cerca della gatta. Per cui se la sora Carolina gli avesse lasciato nel testamento cento, duecento, trecento lirette una volta per sempre, proprio niente di male. Don Giosuè Pianelli, il confessore della povera cristiana, gli aveva fatto capire che il suo nome era scritto su un foglio di carta. Cento lirette le aveva guadagnate soltanto a correre quel dì. Quando la Giuditta venne a dire che la sora