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se ne fa un altro, che son cose che càpitano a tutte, che a lei era capitato di peggio la prima volta per colpa d’un cane grosso che l’aveva assaltata in istrada.

— Non sono i figliuoli che mancano a questo mondo, cara miseria! fan tutte così le sposine: prima piangono per averne, poi piangono perchè ne hanno troppi.

E la buona donna, rifiorente e bella ancora nel suo piccolo lutto, sfogavasi a raccontare le sue miserie e quelle del povero uomo rimasto a casa. Il matrimonio aveva accomodate molte cose, ma non le aveva accomodate tutte. C’eran altre scadenze, c’eran dei livelli, e c’eran quei benedetti figliuoli, a cui bisognava provvedere tutti i santi giorni.

— I morti, alla fine, non hanno bisogno di nulla, ma i figliuoli bisogna vestirli, calzarli, mantenerli, istruirli, e papà Paolino ne aveva fatto dei sacrifici pei figliuoli degli altri. Era giusto che pensasse anche ai suoi: e poichè il Signore aveva mandato la fortuna, Arabella doveva cercare nella sua posizione di aiutare la barca. Quasi collo scarto della roba di suo marito c’era da vestire Mario e Naldo. Se avesse risparmiato ogni mese qualche cosuccia sull’andamento della casa, si metteva in grado di pagare per la Pasqua quel benedetto livello. Non parlava per sè, che ormai sentivasi vecchia e stufa; quantunque fosse una malinconia anche per lei l’aver dovuto contentarsi di un vestito di lana, mezzo rosicchiato dalle tarme, che la sarta non aveva voluto aggiustare, un vestito che a Milano non porterebbero le donne di servizio.

Con questi discorsi, mamma Beatrice cercava di richiamare Arabella alle cose di questo mondo. La

E. De Marchi - Arabella. 10