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Arabella, respirando profondamente, si coprì il volto colle mani presa da un brivido quasi di terrore che le traversò tutto il corpo; e cadde in ginocchio nella stretta del letto, appoggiando la testa sulle mani della contadina.
Dalle impannate socchiuse entrava, insieme al riverbero verde e al tremolio delle foglie del vicino pioppo, il soffio caldo dell’aria che scorreva sui prati. Nell’aia deserta chiocciavano le gallinette. La gran pace dei caldi meriggi di settembre cadeva sul casolare isolato nel verde e penetrava nella rustica stanza dell’inferma non addobbata che da piccoli quadri, da corone e da immaginette attaccate all’uscio.
Angelica, che per un’intuizione delicata del suo organismo sentiva più in là di quel che dicessero le parole, commossa da un senso di mistica pietà, capì e compatì la ripugnanza della vergine, apprezzò il suo sacrificio, e parlando come soleva nei momenti d’ispirazione, col tono elevato e profetico di chi espone più una dottrina che dei pensieri propri, prese a dire, senza levar la mano dalla testa della sua compagna:
— Comprendo che tu abbia a rimpiangere la tua vocazione, povero giglio del giardino della Madonna. Che cosa di più bello della santa castità? essa ci accosta agli angeli. Che cosa di più caro della nostra verginità, che ci fa tutte figlie di Maria? Essere così vicine al sacro tabernacolo e sentirsi strappare via è un gran dolore. E tu avevi consacrata a un’anima bisognosa questa tua vita di pensieri puri e immacolata, ma Dio non vuole, cioè Dio vuole da te qualche cosa di più grande, di più bello.