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— Viva la sposa!.... — Allargò le braccia, nelle quali Arabella si gettò coll’abbandono di una bambina smarrita che trova la mamma. E cominciò a piangere.
— Perchè, perchè? — chiese Angelica, carezzandola.
— Lasciami piangere. A casa non posso mai... Ho bisogno di sollevarmi il cuore. Tu mi compatisci, non è vero? Ecco, mi sento già meglio — soggiunse, asciugandosi gli occhi e accostando la sedia al letto.
— Sento dire che questo matrimonio è una fortuna per tutti.
— Sì, è una fortuna: ma anche le fortune fan paura, e io ero così lontana da quest’idea, tu lo sai. Io aveva promesso alla Madonna che le avrei regalato questi capelli per la pace del mio povero papà. Non si rinuncia senza dolore alla vocazione di tutta la sua giovinezza, e tu devi aiutarmi, Angelica, a vincere questa ripugnanza, perchè sento che ho torto e che devo restituire a’ miei parenti il bene che mi hanno fatto. Anche il signor curato mi ha rimproverata e me ne ha fatto uno scrupolo. Guai se io dicessi di no! Sarebbe come se io volessi rovinare la casa sulla testa della mia gente. Ma qui, qui... — e colla mano segnava il cuore — qui c’è qualche cosa di morto, di troppo freddo, di troppo duro, che non risponde alla chiamata, che rabbrividisce all’idea della responsabilità e dell’ignoto che mi aspettano a Milano. Bisogna che tu preghi per me, Angelica, e interponga presso il Signore i meriti della tua pazienza, perchè io possa amare l’uomo che devo sposare e che domani sarà padrone di me. Ah Dio! Dio!...