Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
apollonio rodio. | ix |
(χτισις) di parecchie città, quali Alessandria, Cauno, Cnido, Canopo, Naucrati e Rodi, argomenti a lui prediletti, perchè gli offrivano libero campo di far mostra della sua vasta erudizione storica e mitologica. Non possiamo oggidì giudicare se questi poemi fossero tutti staccati e indipendenti fra loro, o se fossero parti di un poema solo più grandioso; poichè tutti andarono perduti, meno pochi e brevi frammenti di quello riguardante la fondazione di Rodi.
Delle opere di Apollonio non giunsero intatti fino a noi che gli Argonauti, nei quali il poeta canta la conquista del Vello d’oro. Frisso, fuggito di Grecia insieme colla sorella Elle dalle persecuzioni della matrigna, venne nella Colchide, alla foce del fiume Fasi, e quivi accolto ospitalmente dal re Eeta, sacrificò il portentoso montone, sul quale aveva attraversato l’Egeo ed il Ponto. Appese la pelle, che era d’oro, in un bosco consacrato a Marte, e un mostruoso serpente, che non chiudeva mai gli occhi al sonno, gelosamente la custodiva. Giasone venne a chiedere al re la restituzione del Vello d’oro, e il re promise che glielo avrebbe dato a patto che fosse riuscito ad aggiogare due tori selvaggi dal piè di bronzo, spiranti fuoco dalle narici, e ad arare con essi un campo, nel quale dai denti seminati di un serpente sarebbe sorta un’orrida mèsse di giganti, ch’egli doveva uccidere. Gl’incantesimi di Medea, figlia del re, la quale si era perdutamente innamorata di Giasone, resero a lui facile l’impresa; ma poichè Eeta si rifiutava tuttavia alla restituzione del Vello d’oro, Medea con