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libro iii. 151

     Dolendosi mettea questi lamenti:
     610Perchè, misera me! perchè mi prende
     Cotesta angoscia? O di que’ Greci eroi
     Perir debba il più prode o il più codardo,
     Pêra!... Ma quegli ah salvo scampi e illeso!
     Deh sì ciò avvenga, o veneranda dea,
     615Di Perse figlia! Alle sue case ei torni,
     Sfuggito a morte. E se destin pur fosse
     Che da’ tori sia spento, oh sappia almeno,
     Sappia egli pria, ch’io del suo mal non godo!
Conturbata così, così la mente
     620Agitata ha Medea. Fuor quelli intanto
     Della città venìan la via, che pesta
     Avean già, ricalcando. Ed Argo allora
     A Giason rivolgea queste parole:
     Figlio d’Eson, quel ch’io dirò, tu forse
     625Non loderai; ma nelle afflitte cose
     Niuna prova lasciar vuolsi intentata.
     Dir già udisti da me che una donzella
     È in quella reggia, delle magich’arti
     Dalla stessa Perseide Ecate instrutta.
     630Se farla a noi possiam propensa, io stimo,
     Più non evvi timor che nel cimento
     Vinto tu resti. Assai sospetto ho in vero,
     Che a me la madre mia ciò non assenta,
     Ma ogni modo io colà fatto ritorno
     635Del favor suo la pregherò; chè morte
     A noi tutti commun pende su ’l capo.
Tal fe’ saggia proposta; e l’altro a lui: