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libro iii. 131

S’affrettâr, così detto, al gran palagio
     Di Venere, che bello a lei costrusse
     L’ambizoppo marito allor che sposa
     L’ebbe da Giove. Entro al cortil venute,
     50Sotto all’atrio sostâr di quella stanza,
     Ove il letto a Vulcano orna la dea.
     Ito all’alba era il Fabro alla fucina
     E alle incudini sue là nel grand’antro
     Di quell’isola errante, ove li tutti
     55Suoi dedali lavori alla potenza
     Operava del foco; e sola in casa
     Sedea la diva in ben tornita scranna
     In prospetto alla porta. Avea la chioma
     Giù per le spalle candide diffusa
     60D’ambe le parti, e a ravviarla intesa
     Col pettine dorato, in lunghe anella
     A volgerla prendea: viste le dive
     Starle incontro, si tenne; entro le invita;
     Sorge, e le adagia in molli seggi, ed ella
     65Anche poi si rasside, e con man presta
     Lo sparso crin raccoglie, e sorridendo
     Così ad esse dicea söavemente:
     O venerande, e qual pensier, qual uopo
     Di poi tempo sì lungo or qui v’adduce?
     Già non usaste a me spesso venirne,
     Chè le maggiori fra le dee voi siete.
E a lei Giuno così: Tu ne dileggi;
     Ma ad ambe noi pena commosso il cuore,1

  1. Var. al v. 73. Ma il cuor pena commosso ad ambe noi,