S’affrettâr, così detto, al gran palagio
Di Venere, che bello a lei costrusse
L’ambizoppo marito allor che sposa
L’ebbe da Giove. Entro al cortil venute, 50Sotto all’atrio sostâr di quella stanza,
Ove il letto a Vulcano orna la dea.
Ito all’alba era il Fabro alla fucina
E alle incudini sue là nel grand’antro
Di quell’isola errante, ove li tutti 55Suoi dedali lavori alla potenza
Operava del foco; e sola in casa
Sedea la diva in ben tornita scranna
In prospetto alla porta. Avea la chioma
Giù per le spalle candide diffusa 60D’ambe le parti, e a ravviarla intesa
Col pettine dorato, in lunghe anella
A volgerla prendea: viste le dive
Starle incontro, si tenne; entro le invita;
Sorge, e le adagia in molli seggi, ed ella 65Anche poi si rasside, e con man presta
Lo sparso crin raccoglie, e sorridendo
Così ad esse dicea söavemente:
O venerande, e qual pensier, qual uopo
Di poi tempo sì lungo or qui v’adduce?
Già non usaste a me spesso venirne,
Chè le maggiori fra le dee voi siete.
E a lei Giuno così: Tu ne dileggi;
Ma ad ambe noi pena commosso il cuore,1
↑Var. al v. 73. Ma il cuor pena commosso ad ambe noi,