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l’altra, con troppo grave perdimento del tempo, et con dannosa conseguenza di mille altri inconvenienti, ma che per contrario attenda a se stesso, et conversi strettamente con pochi, et studiosi, et buoni, perche le male compagnie sono pericolose in ogni luogo, come si è detto, ma maggiormente nello studio dove è più libertà, et non si curi il nostro savio scolare d’esser per ventura chiamato, per la sua ritiratezza, bue muto, come di san Tomaso d’Aquino altrove si disse, ne faccia conto di scherni, et motti di scolari, ma ripensi ogni giorno perche sia andato à lo studio, che non è altro se non un mercato di scienze, onde ritornar vacuo è grandissima vergogna, et non di minor danno. Perilche essendo lo studio uno hospitio di passaggieri et uno albergo di brevi giorni, poca stima si ha da fare delle derisioni de i compagni discoli, poi che il vero giuditio si farà non dopo molto tempo nella patria et ne gli altri luoghi, dove il valente scolare già Dottore spiegarà publicamente et con molta sua lode le nobili merci della dottrina acquistata.
Esempio di due nobilissimi scholari di cappadocia, gregorio et basilio santi. Cap. LXXII.
Per sigillo di questo nostro discorso, nelquale havrei desiderato di dare utili avvertimenti al nostro padre di famiglia, reputando che la importanza della cosa gli richieda non poco, per sigillo dico, et concluso ne hò pensato di trascrivere una parte di quella eloquentissima oratione, laquale san Gregorio Nazianzeno scrisse in lode di san Basilio già morto, suo cordialissimo amico, et compagno di studio nella Città di Athene, chiamata madre, et maestra delle arti, et discipline. Certo dovria ogni scholare, che va à studio, leggere quella oratione et considerare attentamente tutto quello che si narra, de gli studii di questa rarissima coppia di due amici, et scholari, che furono poi quei due gran Vescovi et lumi dello oriente di santità, et di dottrina. Ma io per brevità lasciando molte cose mi contentarò di riferirne come hò detto solo una parte. Dice adunque così:
Pari speranza di dottrina, cioè di cosa sopramodo atta à commovere invidia, ci conduceva. Et nondimeno era bandita da noi la invidia ardendo solo di emulatione, la contesa nostra era, non quale di noi riportasse l’honore del primo luogo, ma quale lo cedesse al compagno, percioche ambedue riputavamo per propria, la gloria dell’altro. Pareva che una anima sola fosse in ambedue,, et portasse due corpi. Un solo pensiero era il nostro, di acquistar la virtù, et di accomodare le ragioni, et il modo