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234 | Delle Croniche di Trento |
havrebbon potuto apportarne in tanta copia. Inteso parimente il gran travaglio de confini d’Ongaria, che spaventati d’avantaggio gli Christiani dalla sola memoria delle passate rovine, restavano nuovamente per l’immensa potenza, & numerose squadre de Turchi totalmente abbatuti, che di già prese da nemici la superiore, & inferior parte di quel Regno, con gli luoghi contigui, le cose eran ridotte all’ultimo pericolo, se la buona fortuan delli Alemani, & di tutta la Christianità non havesse ricondoto longi da questo nostro hemispero, Carlo con poderosi Eserciti, per dar in breve soccorsi à quelle parti angustiate. Medemi Generosissimi Prencipi potete render indubitata fede, haver egli con la semplice sua venuta rafrenato il corso de nemici, annhelante alle vittorie, gli fermò tutti mentre con numerosa, & spaventevol Cavallaria minacciavano l’ultimo eccidio di quel distretto.
Non bastano queste cose ad esprimere quanta sij la sua auttorità, appresso gli nemici? E ciò non ostante vorrà donque alcuno contradire non sij eletto Imperatore? Portà ancor dubitare il Mondo della sua virtù, e che quella non sij per giovar alla republica? Non sono gli argomenti infallibili.
Se con la sua auttorità fece tanto, cosa dovrasi sperare dalla sua virtù? Se tanti alti pensieri hà concepiti, se tanto ci promette nella pueritia, cosa habbiamo da sperare ne’ lustri più maturi.
Se ci hà fatti vedere prodigij nella sua tenera età, cosa pensate farà negli anni della virilità. Cessi ogni timore, svanisca ogni dubbio. Considerate sapientissimi Prencipi, quanto sij per valere quell’auttorità già approvata, ingrandita, amplificata, & temuta appresso gli Principi, straniere nationi, confederati, & Cittadini, quanto sij per giovarvi frà ripari nelle proprie case, e nelle medeme squadre. Non havete di che più vacillare in eleger Carlo, alla suprema carica Imperiale? bastarebbe di soverchio quanto dissi, è superfluo il mio discorso, da per se vi sforza ad esser assonto al supremo Scetro, volenta anco questa lingua à snodarsi ne suoi encomij, qui son costretto adombrare almeno la di lui felicità, che gli nostri maggiori chiamarono compagna della virtù, non si può negare, che la fortuna non habbi gran parte del dominio sopra le cose sublunari, prodiga nelle cose averse, avara & tenace nelle prospere. Perseguita con si maligno instinto, che gli alti abbassa, conculca gli afflitti, altri benche rari favorisce di modo, che in breve con continuati favori gli conduce all’apice delle felicità.
Non sarà cosa dunque fuori di raggione asserire, essere dal Cielo stata concessa à personagij destinati à governi supremi. La medema virtù senza la fortuna non può sortire prosperi successi; quanto meno quando l’havrà contraria. Quindi leggiamo haver gli antichi ben spesso commesso gli commandi delli Eserciti, non tanto per riguardo della virtù, quanto della