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derico li assicurò che, riacquistato il castello, non lo avrebbe demolito, ma reso senza frode alla medesima comunità1. Chiamati intanto a consulta i pari della sua curia, fu di comune consenso deciso di citare avanti il tribunale del vescovo e principe tutti i ribelli, con termine perentorio; trascorso il quale, e niun comparendo, fosse fulminata contro di loro la sentenza di lesa maestà, che li avrebbe privati dei beni e sottoposti a bando perpetuo. Caduti i ribelli in contumacia, i beni allodiali di parecchi di quelli furon venduti, onde supplire con una parte di essi alle spese di guerra e coll’altra a satisfare ai creditori dei medesimi rei; mentre con una porzione dei beni feudali lor confiscati vennero rimunerati i più benemeriti seguaci del vescovo; il quale continuava alacremente l’assedio del castello di Povo. Arnoldo Moscardino, Bertoldo di Borgonuovo, Enrico di Ottone Grassi, capi dei congiurati, vedendo ridursi le cose loro all’estremo, uscirono dal castello e si resero a discrezione. Il vescovo, mite di sua natura, udito il consiglio della sua curia, li riprese in grazia, promise di adoperarsi a fargli sciogliere dal bando imperiale, restituì loro i feudi e beni confiscati, ad eccezione di quelli che furono già alienati, e la porzione loro spettante sui proventi delle miniere, detratte le spese. Dal canto loro, gli amnistiati obbligaronsi di restituire i rapiti cavalli a Guglielmino di Caldonazzo, e di riparare i danni commessi nel castello di Povo e contro persone non soggette all’immediata autorità del
- ↑ Cod. Wangh., pag. 187.