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29 | ANNALI D'ITALIA, ANNO IX. | 30 |
scrive essere state otto le legioni che si mantenevano dai Romani al Reno. Pare che Vellejo1 ne nomini solamente cinque. Solevano in que’ tempi essere composte le legioni di seimila fanti l’una, ed alcune d’esse avevano la giunta di qualche poco di cavalleria. Il nerbo principale delle armate romane era allora la fanteria. Varo, che povero entrò già nella Siria ricca, e nel partirsene ricco, lasciò lei povera, si credette di poter fare il medesimo giuoco in Germania. Cominciò a trattar que’ popoli, come se fossero una specie di schiavi, con abolir le loro consuetudini, esigerne a diritto e a rovescio danari, e volere ridurli a quella total sommessione e maniera di vivere, che si usava fra i Romani. Diede motivo questo suo governo a molti di tramare una congiura. Arminio, figliuolo o pur fratello di Segimero, giovane prode e de’ principali di quelle contrade, già ammesso alla cittadinanza di Roma e all’ordine equestre, quegli era che più degli altri animava i suoi nazionali a ricuperar l’antica libertà. Quanto più crescevano i loro odii, e si preparavano a far vendetta, tanto più fingevano sommessione ai comandanti, amore e confidenza alla persona di Varo, in guisa tale, che l’avviso dato da più di uno che si macchinava una congiura contra de’ Romani, da lui fu creduto una baia, nè precauzione alcuna si prese. Ora essendosi per concerto fatto fra loro mossi all’armi alcuni de’ lontani Tedeschi, Quintilio Varo, messa insieme un’armata di tre legioni, d’altrettante ale di cavalleria, e di sei coorti ausiliarie, che forse ascendevano alla somma almeno di ventiduemila combattenti, la più brava ed agguerrita gente che avesse allora l’imperio romano, si mise in viaggio con grossissimo bagaglio, per opporsi ai tentativi de’ nemici. Arminio e Segimero suo padre, restati indietro col pretesto di raunar le lor genti in aiuto di Varo, allorchè i Romani si trovarono sfilati e disordinati per selve e strade disastrose, all’improvviso[p. 30] dalla parte superiore furono loro addosso, e cominciarono a farne macello. Per tre giorni durò il conflitto miserabile per i Romani, che non trovando mai sito in quelle montagne da potersi unire, schierare e difendere, rimasero quasi tutti vittima del furore germanico. Varo, e i principali dell’esercito, dopo aver riportate molte ferite, per non venire in mano dei nemici, da sè stessi si diedero la morte. Tutto il carriaggio, e le insegne romane restarono in poter de’ Germani. Per attestato di Tacito, il luogo di questa tragedia fu il bosco di Teutoburgo, oggidì creduto Dietmelle nel contado di Lippa, vicino a Paderbona ed al fiume Wessen, nella Westfalia.
Portata questa lagrimevol nuova a Roma, incredibile fu il cordoglio d’ognuno, non minore il terrore per paura2 che i Germani meditassero imprese più grandi, e pensassero a passare il Reno, o a volgersi ancora coi Galli verso l’Italia. Più degli altri se ne afflisse Augusto per la morte di sì valorose truppe, per la perdita delle aquile romane e per la cattiva condotta di Varo, uomo male adoperato negli affari di pace, e peggio in quei della guerra. Perciò per più mesi non si fece tosare il capo, nè tagliare la barba; e andò sì innanzi il suo affanno, che dava della testa per le porte, e gridava da forsennato, che Varo gli restituisse le sue legioni. A sì fatti colpi non erano avvezzi i Romani, e dopo la sconfitta di Publio Crasso in Asia non aveano provata una calamità simile a questa. Si rincorò poscia Augusto al sopraggiugnere susseguenti avvisi d’essere la Gallia quieta, e di non avere i Germani osato di passare il Reno, per l’esatta guardia delle altre legioni ch’erano salve in quelle parti, e per la buona cura di Publio Asprenate, generale di due legioni al Reno, il quale seppe anche approfittarsi non poco delle eredità de’ soldati uccisi. Perchè in Roma la gioventù atta all’armi non si voleva arrolare, adoperò Augusto