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443 ANNALI D'ITALIA, ANNO CXX. 444

a Baja, Negrino a Faenza, e Lucio in viaggio. Protestò dappoi Adriano, non essere accaduta la lor morte di commessione sua, e lo scrisse anche nella sua vita, libro che più non esiste. Ma per quanto egli dicesse1, comune credenza fu, che per insinuazioni segrete da lui fatte, il senato levasse a sì riguardevoli soggetti la vita; nè alcuno si sapea persuadere, che persone di tanta riputazione fossero giunte a meditar simile attentato. Lo stesso Adriano poi in qualche congiuntura non negò d’aver data la spinta alla lor morte, con rigettarne poi la colpa del consiglio sopra Taziano, prefetto del pretorio.

Nè fu questa la sola crudeltà usata da Adriano. Altre nobili e potenti persone credute colpevoli per la suddetta congiura, o per altre cagioni, ed in altri tempi, perderono la vita d’ordine suo, tuttochè l’astuto principe, anche con giuramento, attestasse d’essere in ciò innocente. Così in un altro anno egli fece levare dal mondo Apollodoro Damasceno2. Siccome di sopra accennammo, era questi un architetto mirabile. Avea fabbricato il maraviglioso ponte di Trajano sul Danubio. Sua fattura parimente furono la superba piazza di Trajano, l’Odeo ed il Ginnasio in Roma. Un giorno si trovava presente Adriano, allorchè l’Augusto Trajano ed Apollodoro trattavano di una di esse fabbriche, e volle anch’egli fare il saccente, come quegli che credea di sapere di tutto. Rivoltosegli Apollodoro gli disse: Andate di grazia a dipingere delle zucche: chè di questo non v’intendete punto. Questa ingiuria non si cancellò mai più dal cuor di Adriano, e fu cagione che mandò poi con de’ pretesti quel valentuomo in esilio. Tuttavia maggior male per questo non gli avrebbe fatto; anzi in qualche tempo si servì di lui. Avvenne che Adriano fabbricò il tempio di Venere e di Roma, dove erano le magnifiche statue[p. 444] di queste due falsamente appellate dee. Per prendersi beffe di Apollodoro ch’era fuori di Roma, e forse esiliato, gliene mandò il disegno, acciocchè intendesse che senza di lui si poteano far delle sontuose e belle fabbriche in Roma; e nello stesso tempo desiderò che dicesse il suo sentimento, se fosse o no con buona architettura formato quello edifizio. Rispose Apollodoro, che conveniva fabbricar quel tempio assai più alto, se avea da fare un’eminente comparsa sopra le alte fabbriche della Via sacra: ed anche più concavo, a cagion delle macchine che si pensava di fabbricar ivi segretamente, per introdurle poi nel teatro. Aggiugneva, che le maestose statue ivi poste non erano proporzionate alla grandezza del tempio, perchè se le dee avessero avuto da levarsi in piedi ed uscir fuori, non avrebbono potuto farlo. All’udir queste osservazioni, e al conoscere l’error commesso senza poterlo emendare, s’empiè di tanta rabbia e dolore Adriano, che privò di vita il troppo sincero architetto, degno ben d’altra mercede pel suo impareggiabil valore. Oh che bestia il signore Adriano! griderà qui taluno. Ma convien aspettare alquanto, perchè mirandolo in un altro prospetto fra poco, troveremo in lui tanto di buono da potere far bella figura fra i regnanti. Non so io ben dire in che luogo dimorasse Adriano, allorchè succedette la tragedia dei quattro consolari suddetti uccisi. Ben so ch’egli si trovava fuori di Roma3, ed avvisato dalla grave mormorazione che si faceva per la morte di sì illustri personaggi, e ch’egli s’era tirato addosso l’odio di tutti, corse frettolosamente a Roma per prevenire i disordini. Quetò il popolo con dispensargli un doppio congiario. Mentre era lontano, gli avea anche fatto distribuire tre scudi d’oro per testa. Nel senato, dopo aver addotte le scuse dell’operato, giurò di nuovo che non avrebbe mai fatto morire senatore alcuno, se non era

  1. Dio., lib. 69.
  2. Dio., ibidem.
  3. Spartianus, in Hadriano.