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375 ANNALI D'ITALIA, ANNO XCVII. 376

la legge che non si potessero far eunuchi; e proibito il prendere in moglie le nipoti. Attese ancora al risparmio, dopo aver conosciuto il gran male provenuto dallo scialacquamento esorbitante di Domiziano. Levò dunque via molti sagrifizii, molti giuochi ed altri non pochi spettacoli, che costavano somme immense1. Soppresse tutto ciò ch’era stato aggiunto agli antichi tributi a titolo di pena contro quei ch’erano morosi al pagamento; siccome ancora le vessazioni ed angarie introdotte contro ai Giudei, nell’esigere le lor imposte. Le città oppresse da troppe gravezze ebbero sollievo da lui; ed ordinò che per tutte le città d’Italia si alimentassero alle spese del pubblico gli orfani dell’uno e dell’altro sesso, nati da poveri genitori, ma liberti: carità continuata anche dai susseguenti buoni imperadori, anzi accresciuta, come apparisce dalle antiche iscrizioni. Ristrinse ancora l’imposta della vigesima per le eredità e per gli legati, introdotta da Augusto. Fra le lettere di Plinio il giovane2 si trova un editto di questo imperadore, che assai esprime quanta fosse la di lui bontà, con dir egli che ciascuno de’ suoi concittadini poteva assicurarsi, aver egli preferita la sicurezza di tutti alla propria quiete, e non aver altro in animo che di far di buon cuore de’ nuovi benefizii, e di conservare i già fatti da altri. E però per levar dal cuore d’ognuno la paura di perdere quel che aveano conseguito sotto altri Augusti, o doverne cercar la conferma con delle preghiere d’oro, dichiarava che senza bisogno di nuovi ricorsi, chiunque godeva avesse da godere; perchè egli volea solamente attendere a dispensar grazie e benefizii nuovi a chi non avea finora goduto.

E pure con un principe sì buono, il cui dolce e salutevol governo tanto più dovea prezzarsi, quanto più si paragonava[p. 376] col barbarico precedente, non mancarono nobili romani che tramarono una congiura3. Capo di essi fu Calpurnio senatore dell’illustre famiglia de’ Crassi: degli altri non si sa il nome. Con esorbitanti promesse di danaro sollecitava egli alla rivolta i soldati. Scoperta la mina, Nerva il fece sedere presso di sè assistendo ai giuochi de’ gladiatori, e nella stessa guisa che vedemmo operato da Tito, allorchè gli furono presentate le spade di quei combattenti, le diede in mano a Crasso, acciocchè osservasse, se erano ben affilate, mostrando in ciò di non paventar la morte. Fu processato e convinto Crasso: tuttavia Nerva per mantener la sua parola di non uccidere senatori, altro gastigo non gli diede che di relegar lui e la moglie a Taranto. Fu biasimata dal senato sì grande indulgenza in caso di tanta importanza, e in altri ancora, perchè egli non sapea far male ai grandi, benchè sel meritassero4. Trovavasi un dì alla sua tavola Vejento o sia Vejentone, già console, uomo scellerato, che sotto Domiziano era stato la rovina di molti. Cadde il ragionamento sopra Catullo Messalino, che nell’antecedente governo tutti avea assassinati colle sue accuse e colla sua crudeltà, ed era già morto. Se costui, disse allora Nerva, fosse tuttavia vivo, che sarebbe di lui? Giunio Maurico, uomo di gran petto, di egual sincerità, e uno dei commensali immantinente rispose: Con esso noi sarebbe a questa tavola. Ma quello che maggiormente sconcertò Nerva, fu l’attentato d’Eliano Casperio, creato non so se da lui, o pur da Domiziano, prefetto del pretorio, cioè capitan delle guardie. O sia che costui movesse i soldati, o che fosse incitato da loro, certo è, che un dì formata una sollevazione andarono tutti al palazzo5, chiedendo con alte grida il capo di coloro che aveano ucciso Domiziano. A tal dimanda si trovò in una

  1. Aurel. Vict., in Epit.
  2. Plinius lib. 10, Epist. 66.
  3. Dio., lib. 68. Aurelius Victor, in Epitome.
  4. Plinius, lib. 4, Ep. 22. Aur. Vict., in Epit.
  5. Plinius in Panegyr.