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329 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXXXIII. 330

Svetonio, non si videro mai in tutto l’imperio romano i governatori e i magistrati sì modesti e giusti, come sotto di lui. E perchè questi dopo la sua morte lasciarono la briglia alla loro malnata avidità di far danaro, furono poi per la maggior parte condannati e puniti. Come censore perpetuo fece ancora alcune belle provvisioni. Volle nei teatri, distinti dalla plebe i sedili de’ cavalieri. Abolì le pasquinate e i libelli famosi, pubblicati contro l’onore dei nobili dell’uno e dell’altro sesso, gastigandone gli autori, se venivano a scoprirsi. Cacciò dal senato Cecilio Rufino questore, perchè si dilettava di far il buffone e il ballerino. Alle pubbliche meretrici vietò l’uso della lettiga, e il poter conseguire eredità e legati. Levò dal ruolo dei giudici un cavaliere romano, perchè dopo avere accusata di adulterio e ripudiata la moglie, l’avea dipoi ripigliata. Secondo la legge statinia condannò alcuni de’ senatori e cavalieri per la lor impudicizia. Nè il padre nè il fratello di lui aveano presa cura degli adulterii delle vergini vestali, le quali, come ognun sa, venivano obbligate a conservar la verginità. Rigorosamente volle egli, siccome Pontefice massimo, che si eseguisse contra di loro la pena capitale, prescritta dalle leggi; nè risparmiò i dovuti gastighi o d’esilio o di morte ai complici dei lor falli. Parve1 parimente ne’ principii del suo governo, ch’egli abborrisse il levar la vita agli uomini, nè fosse punto avido della roba altrui. Anzi inclinava egli molto alla liberalità, e ne diede dei gran saggi verso tutti i suoi cortigiani, parenti ed amici, loro poscia severamente incaricando di guardarsi da ogni sordida azione per far danaro. Le eredità a lui lasciate da chi avea figliuoli, le ricusò. Molte terre decadute al fisco restituì ai padroni di esse. Decretò l’esilio a quegli accusatori che non provavano le lor denunzie ed accuse. Molto più aspramente trattò coloro che intentavano [p. 330]processi calunniosi di contrabbandi in favore del fisco; imperocchè egli diceva: Chi non gastiga i falsi accusatori, anima essi ed altri a questo iniquo mestiere. Non fu minore la sua magnificenza nel rifare il Campidoglio: che fu mirabil cosa, perchè, secondo la testimonianza di Plutarco2, nelle sole dorature egli v’impiegò dodicimila talenti: il che era un nulla rispetto alle spese fatte nell’adornare il proprio palazzo. Rifabbricò eziandio varj templi bruciati sotto Tito Augusto, mettendovi il suo nome, e non già quello de’ primieri. Fece di pianta il tempio della famiglia Flavia, lo stadio per gli atleti, l’Odeo per le gare de’ musici, e la Naumachia per gli combattimenti navali. Marziale, poeta di questi tempi, sfacciato adulatore di Domiziano, esalta alle stelle tutte queste sue fabbriche, ed ogni altra sua azione. Ora quanto s’è detto fin qui potrà far credere ai lettori, che Domiziano comparisse figliuolo ben degno di un Vespasiano, e fratello d’un Tito, principi che aveano restituito il suo splendore a Roma, e all’imperio romano. Ma noi non tarderemo a vederlo indegno lor figlio e fratello, e tiranno non signore di Roma. Prese egli in quest’anno il titolo d’imperadore per la terza volta, a cagione, per quanto si crede, di qualche vittoria riportata da Giulio Agricola nella Bretagna. Colà s’inoltrò cotanto quel valente capitano coll’armi romane, che arrivò sino ai confini dell’Irlanda3.


Anno di Cristo LXXXIII. Indizione XI.
Anacleto papa 1.
Domiziano imperadore 3.


Consoli


Flavio Domiziano Augusto per la nona volta, e Quinto Petillio Rufo per la seconda.


A Quinto Petilio fu sostituito nel consolato, per quanto si crede, Cajo

  1. Sueton. in Domitiano, cap. 9.
  2. Plutarc., in Vita Poplic.
  3. Tacitus in vita Agricolae, cap. 24.