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321 | ANNALI D'ITALIA, ANNO LXXX. | 322 |
da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti virtù, di maniera che si convertirono in lode sua tutt’i conceputi timori di lui. Licenziò tosto dalla sua corte qualunque persona che dar potesse scandalo, ed elesse amici di gran senno e proprietà, tali che anche i susseguenti principi se ne servirono, come di strumenti utili o necessari al buon governo. Tornò a Roma la regina Berenice, figurandosi, che potendo ora Tito far tutto, molto anch’ella potrebbe sopra di lui. Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue contrade. I conviti, ai quali invitava or l’uno or l’altro de’ senatori e de’ nobili, erano allegri, ma senza profusione od eccesso. Più non si osservò in lui ruggine d’avarizia; mai non tolse ad alcuno il suo e neppur ammetteva i regali soliti a darsi dalle provincie, città ed università agli Augusti. Eppur niuno d’essi imperadori gli andò innanzi nella munificenza e magnificenza. Imperciocchè in quest’anno egli dedicò l’anfiteatro1, appellato oggi il Colosseo, stupenda mole, incominciata, per quanto si crede, da Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata. Nulla più fa intendere qual fosse la potenza e splendidezza degli antichi Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia di quel superbo edifizio. Fabbricò eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici, presso al medesimo anfiteatro, le cui vestigia pur ora si mirano circa la chiesa di san Pietro in Vincula, per attestato del Nardino, del Donato e d’altri. Ed allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche, cioè quando si misero all’uso pubblico, Tito solennizzò la funzione con maravigliosi e magnifici spettacoli, descritti da Dione2. Si fecero combattimenti navali, giuochi di gladiatori, caccie di fiere, cinquemila delle quali furono uccise nell’anfiteatro in un sol dì, e quattro altre migliaia ne’ susseguenti giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi, e una gran profusione di doni al [p. 322]popolo. Durarono cento dì così allegre e dispendiose feste.
L’incendio del Vesuvio, di sopra da me accennato, che fu de’ più terribili che mai si sieno provati, avea portata la rovina o notabili danni alle città e terre della Campania. Tito inviò colà due senatori, già stati consoli con buone somme di danaro, acciocchè si rimettessero in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò ancora i beni di tutti coloro che erano morti senza eredi, benchè, secondo le leggi, que’ beni appartenessero al suo fisco. Ed egli stesso colà si portò, non tanto per mirar la desolazion de’ luoghi, quanto per affrettarne il sollievo. Ma a questa disgrazia ne tenne dietro un’altra non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi il fuoco in Roma, vi consumò il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino, il Pantheon, i templi di Serapide e d’Iside, siccome quel di Nettuno ed altri; il teatro di Balbo e di Pompeo, il palazzo d’Augusto colla biblioteca, e molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu la strage delle fabbriche, che fu creduto quell’incendio non operazion degli uomini, ma gastigo mandato da Dio. Se ne afflisse sommamente Tito, protestando nondimeno, che a lui come principe apparteneva il risarcimento di tante fabbriche del pubblico. In fatti a questo fine alienò tutt’i più preziosi mobili de’ suoi palazzi; e quantunque molti particolari, e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli offrissero o promettessero di molto danaro per quel bisogno, non volle che alcuno si scomodasse, riserbando tutte quelle spese alla propria borsa. Dopo sì fiero incendio succedette in Roma una atrocissima peste, di cui parlano Svetonio e Dione, e che, secondo3 Aurelio Vittore, fu delle più micidiali che mai si provassero in quella città, e se ne diede la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito io, questa essere la medesima, che di sopra all’anno 77 fu riferita da Eusebio, e però collocata fuor di sito, cioè