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317 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXXIX. 318

Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a Vespasiano, di maniera che gl’indebolirono forte lo stomaco, e gli suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del superstizioso ed empio rito de’ suoi tempi, nei quali si deificavano dopo morte gl’imperadori, disse: Pare ch’io incominci a diventar dio. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua presenza alcuni: Oh, disse, questa non parla per me. Quella sua chioma minaccia il re de’ Parti che porta la capigliatura. Quanto a me son calvo. E perciocchè, non ostante l’infermità sua egli seguitava ad operar come prima, attendendo agli affari dell’imperio, e dando udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari) rispose: Un imperadore ha da morire stando in piedi. Morì egli in fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di giugno, in età di settant’anni, e non già per male di podagra, come alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente1, e fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli fu dato il titolo di Divo. Da Svetonio2 si raccoglie che a tali esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando, atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto imperadore. Il capo de’ mimi, che in questa occasione rappresentava la persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui volto, volendo esprimere l’avarizia a lui attribuita, dimandò ai ministri dell’erario, quanto costava quel funerale. Dissero: Ducento cinquantamila scudi. Ed egli [p. 318]Datemene solo dugento cinquanta, e gittatemi nel fiume. Gran disavventura si credeva allora il restar senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.

Era già suo collega nell’imperio, cioè nel comando dell’armi, e nella tribunizia podestà, Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare, suo primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre l’avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo d’Augusto, indicante la suprema potestà, e quella di Pontefice Massimo; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di Padre della Patria, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di Svetonio3, egli era nato in Roma nell’anno 41 dell’epoca nostra, in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d’esso lui con Britannico, che in occasion del veleno dato a quell’infelice principe, ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia. Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso Britannico, con fargli ergere due statue, l’una dorata, e l’altra equestre d’avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l’arti della guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea far

  1. Dio., lib. 66.
  2. Sueton., in Vespasiano, cap. 19.
  3. Sueton., in Tito, cap. 1.