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295 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXXI. 296

comparir verso tutti piuttosto concittadino, e come persona tuttavia privata. Di rado abitava nel palazzo, più spesso negli orti sallustiani, luogo delizioso. Dava quivi benignamente udienza non solo ai senatori, ma agli altri ancora di qualsivoglia grado. Vigilantissimo, soleva avanti giorno, stando in letto, leggere le lettere e le memorie a lui presentate, ammettere i suoi familiari ed amici, quando si vestiva, e favellar con loro delle cose occorrenti. Uno di questi era Plinio il Vecchio1. Anche andando per istrada non rifiutava di parlare con chi avea bisogno di lui. Fra il giorno stavano aperte a tutti e senza guardia le porte della sua abitazione. Sempre interveniva al senato, mostrando il convenevol rispetto a quell’ordine insigne, nè v’era affare d’importanza che non comunicasse con loro. Sovente ancora, andava in piazza a rendere giustizia al popolo. qualora per la sua avanzata età non potea portarsi al senato, gli partecipava i suoi sentimenti in iscritto, e incaricava i suoi figliuoli di leggerli. Nè solamente in ciò dava egli a conoscere la stima che facea del senato, ma eziandio col voler sempre alla sua tavola molti dei senatori, e coll’andar egli stesso non rade volte a pranzare in casa degli amici e dei familiari suoi. Sapeva dir delle burle, e pungere con grazia; nè s’avea a male, se altri facea lo stesso verso di lui. Dilettavasi massimamente di praticar colle persone savie, per le quali non vi era portiera, e fu udito dire2: Oh potess’io comandare a dei saggi, e che anche i saggi potessero comandare a me! Non mancavano neppure in que’ tempi pasquinate e satire contro di lui; ma egli, benchè, ne fosse avvertito, non se ne [p. 296]alterava punto, seguitando, ciò non ostante, a far ciò che riputava utile alla repubblica. Allorchè Vespasiano era in Grecia col pazzo Nerone3, vedendolo un dì nel teatro prorompere in parole, e gesti indecenti alla sua dignità, non seppe ritenersi dal fare un cenno di stupore e disapprovazione. Febo, liberto di Nerone, osservato ciò, se gli accostò, e dissegli che un par suo non istava bene in quel luogo. Dove volete ch’io vada?, disse allora Vespasiano. E il superbo ed insolente liberto replicò, che andasse alle forche. Costui ebbe tanto ardire di presentarsi, davanti a lui, già divenuto imperadore, per addurre delle scuse. Altro male non gli fece Vespasiano, se non di dirgli, che se gli levasse davanti, e andasse alle forche. Con rara pazienza sofferiva egli che gli si dicesse la verità, e godeva quel bel privilegio, tanto esaltato da Cicerone in Giulio Cesare, di dimenticar le ingiurie. Maritò molto decorosamente tre figliuole di Vitellio; e benchè si trovasse più d’uno che macchinò congiure contra di un principe sì buono, contuttociò niuno mai gastigò se non coll’esilio, solendo anche dire, che compativa la pazzia di coloro, i quali aspiravano all’imperio, perchè non sapevano che aggravio e spine l’accompagnassero. Però sua usanza fu di guadagnar coi benefizii, e non di rimeritar coi gastighi, chi era stato ministro della crudeltà de’ tiranni, perchè volea credere che avessero così operato più per paura che per malizia. E questo per ora basti de’ costumi di Vespasiano. Ne riparleremo andando innanzi, come potremo, giacchè si son perdute le storie di Tacito, e con ciò a noi manca il filo cronologico delle azioni di questo principe.

  1. Plinius junior, lib. 4, epist. 5.
  2. Philostratus, in Vita Apollonii Tyan.
  3. Dio., lib. 66. Suetonius, in Vespasiano, cap. 14.