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217 ANNALI D'ITALIA, ANNO LX. 218

chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de’ governi. Andossi poi sempre abbandonando Nerone1 ai divertimenti e piaceri, dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli altri, purchè corresse co’ cavalli nel circo vaticano chiuso per non lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l’invogliò ad invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi ciò ch’esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente l’incitò a quel plebeo mestiere2. Tuttavia ben conoscendo, che i saggi erano d’altro sentimento, credette di schivar il disonore, con cercare de’ compagni nobili che imitasser lui ne’ pubblici divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de’ giuochi di somma magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro nobili dell’uno e dell’altro sesso, non solo dell’ordine equestre, ma anche del senatorio, comparir ne’ teatri, ne’ circhi e negli anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre, rappresentar commedie e tragedie, ballar ne’ teatri, far da gladiatori e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non disubbidir Nerone che gl’invitava. Mirava il popolo, ed anche i forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio, un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle famiglie, come ancora perchè veniva[p. 218] con ciò a crescere troppo smisuratamente la corruttela de’ costumi. Rammaricavansi inoltre osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl’immensi regali alla plebe con gittar dei segni, ne’ quali era scritto quella sorta di dono che dovea darsi a chi avea la fortuna d’aggraffarli come cavalli, schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico, siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi, appellati Giovenali in onore della prima volta ch’egli si fece far la barba: rito festivo presso i Romani. Que’ preziosi peli in una scatola d’oro furono consecrati a Giove. In que’ giuochi danzarono i più nobili fra i Romani, e bella figura fra l’altre dame fece Elia Catula, giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de’ nobili non potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi, per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne’ pubblici teatri. Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva mascheraTo. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere persone impiegate ne’ più riguardevoli magistrati.

Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual nondimeno si trovò sì somigliante a quella de’ capponi cantanti, che niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare allo stesso l’udienza. Tacito3 anch’egli lo attesta di Burro, ma con aggiungere che internamente se ne affliggeva.

  1. Tacitus, Annal. lib. 14, cap. 14.
  2. Dio., lib. 61.
  3. Tacitus, lib. 14, cap. 15.