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199 ANNALI D'ITALIA, ANNO LV. 200

di unirsi coi Romani per far guerra ai Parti, acciocchè battuti dalla parte della Mesopotamia, uscissero dell’Armenia. Ne uscirono in fatti per le discordie insorte fra Vologeso re d’essi Parti e Vardane suo figliuolo. Portate a Roma cotali nuove, ed ingrandite, mossero il senato adulatore a decretar la veste trionfale a Nerone, ed anche l’ovazione. A Domizio Corbulone fu dato il governo, o pur la cura degli affari dell’Armenia Maggiore: cosa applaudita dai Romani. Il credito di questo generale, non meno che gli uffizii di Cajo Ummidio Durmio Quadrato governatore della Siria, indussero Vologeso a dimandar la pace e a dar degli ostaggi. Segni ancora di clemenza diede Nerone nel non volere che fossero ammesse le accuse contra di un senatore e di un cavaliere.

Tutto il finquì narrato appartiene in parte al precedente anno. Nel presente si cominciarono ad imbrogliar le scritture fra Agrippina e il figliuolo. Erasi Nerone già incapricciato di una giovine, appellata Atte, di bassa sfera, perchè stata schiava, ed allora liberta. Gli tenevano mano due de’ suoi compagni negli spassi, cioè Marco Salvio Ottone, che fu poi imperadore, e Senecione. L’amore ch’egli dovea ad Ottavia sua moglie, principessa per avvenenza e saviezza meritevole di ogni lode, si era tutto rivolto verso questa ignobil giovinetta, essendosi fin detto che gli corse più volte per mente di sposarla. Mostravano di non saper questo suo sviluppo i due primi ministri per paura, che se gli si contrastava questo amoreggiamento, da cui non veniva ingiuria ad alcuno, egli si volgesse alle case de’ nobili. Ma Agrippina non sì tosto se n’avvide, che diede nelle smanie, e gli fece più e più bravate. Tuttavia accorgendosi a null’altro servire questa sua severità, che ad accendere maggiormente le disoneste fiamme di Nerone, mutò batteria, e si studiò di guadagnarlo colle buone, e con profusion di regali e fin con esibizioni che non son da dire; [p. 200]e tuttochè raccontate da Tacito e da Dione, han tutta la ciera di calunnie, facili, quando si vuol male alle persone. Nerone all’incontro, scelte le più belle gioie e masserizie del palazzo, le inviò in dono alla madre, la quale se ne offese, per voler egli far seco da liberale con quella roba che tutta egli dovea riconoscer da lei. Qui non si fermò Nerone. Levò il maneggio delle rendite del pubblico a Pallante, liberto il più confidente (e forse troppo) che s’avesse la madre, per abbassar sempre più la di lei superbia. Per questo andò nelle furie Agrippina, nè potè contenersi dal dire un dì al figliuolo, che giacchè vivea Britannico, ella ne saprebbe anche fare un imperadore. Anzi, secondo Dione1, gli ricordò in tal maniera d’averlo fatto imperadore, che parve volesse dire che era anche capace di disfarlo. Queste parole della superba donna incautamente proferite, furono la sentenza di morte dell’infelice Britannico, giovinetto di molta espettazione, amato da ognuno, che già toccava il quindicesimo anno dell’età sua. Nerone il fece avvelenare da Giunio Pollione tribuno di una coorte di pretoriani. Mentre lo sfortunato principe pranzava coll’imperadore, ma, secondo lo stile, ad una tavola a parte, gli fu portata una bevanda troppo calda senza veleno, di cui fece il saggio lo scalco suo. Dimandò Britannico dell’acqua fredda per temperare quel caldo, e recatagli questa con un potentissimo veleno, bebbe; ed appena bevuto, si sentì sconvolgere tutto, e da lì a poco cadde per terra tramortito. Ognuno de’ circostanti atterrito tremava; alcuno anche imprudente si ritirò2; ma i più accorti fissarono il guardo in Nerone, il quale senza punto muoversi da tavola, e senza punto scomporsi, disse che quello era un colpo di mal caduco, a cui fin da fanciullo egli era soggetto. Britannico morì nella seguente notte, e fu immediatamente bruciato il

  1. Dio., lib. 6.
  2. Tacitus, lib. 13, cap. 7.