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Capitolo XXII. | 211 |
dell’elmo e cadde tramortito in terra, e Dio l’aiutò che il bastone diede sul taglio della spada per modo che più d’un braccio presso alla catena si ruppe. Artilaro gittò via il resto di quello che gli era rimasto, e corse sopra il cavaliero, e furiosamente, come affamato lupo il prese, e trattogli l’elmo di testa, lo pigliò in braccio, e come disperato se lo gittò sopra le spalle, e andò verso i presi cavalieri. Oh! quanto doloroso pianto fece messere Dionino, e si raccomandò a Dio come fece Artilafo e quei del castello, che erano molto mal contenti e sbigottiti. Il sacerdote d’Apollo gridava: — Uccidetelo!» e la maggior parte del campo gridava, sicchè Artilaro non udiva il sacerdote. In questo mentre il Meschino ritornò in sè, e videsi in tanto pericolo, senza elmo in testa, senza spada in mano, onde subito ricorse al fianco, e il coltello trasse, e vide l’elmo di Artilaro ch’aveva i lacci rotti. Il Meschino gli mise la punta del ferro dentro il collo, ed egli dal dolore lo lasciò cadere, e il Meschino tornò dove era caduta la spada, e quei del castello si mossero, e gli fu rilegato l’elmo in testa, e così a piedi andò dove Artilaro combatteva con la morte, gettato in terra; trassegli fuora il coltello, e così malamente morì. Or ecco quello che fa la superbia, che il più volte finisce sì vilmente. Che morte fece la superbia di Cesare, di Achille, di Pirro suo figliuolo, di Dario, di Alessandro, di Oloferne, di Golìa, e di Saul, di Nembroth monarca, di Marc’Antonio, di Annibale, di Catilina e di Enea? Tutti questi e molti altri sono andati per la superbia a male. Come Guerino ebbe ucciso Artilaro fece metter la sella al cavallo, e vi montò su, e corse dov’era Dionino ed Artilafo; che già si era tutto il campo levato a rumore d’arme, ed uccidevansi come cani insieme.