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capitolo xxii. 207

tina come fu giorno s’armò, e come disperato comandò che se vedessero un sol cavaliere, nessuno gli andasse incontro, e se alcuno si movesse per dargli aiuto fosse tutto smembrato, acciò niuno si movesse e avesse ardimento di andare ad aiutarlo, e se fosse più di uno lo soccorressero, e comandò che niuno non si disarmasse, che vinta la battaglia, e ucciso quel traditore cristiano: «Voglio, diceva egli, combatter il castello e ucciderli tutti per vendetta di mio fratello,» e armato andò verso il castello e in quel luogo dove fu ucciso suo fratello si fermò, domandò battaglia, e gran parte della gente armata era intorno al campo di Artilaro.

Tanta era la superbia di Artilaro che i suoi medesimi pregavano gli dèi che egli perdesse, massime quei di Maronta e di Monis, e del lago Fonte Solis, che dubitavano che non li ardesse tutti per vendetta del fratello. Desideravano avere l’antico loro signore Artilafo, perchè i suoi antichi furono signori di quel paese, e della montagna, e della città e del lago, e questo intervenne per suo difetto e per la superbia, com’è già intervenuto a molti signori per virtù della fortuna, che non conoscono i benefizi che hanno ricevuto da Dio, ma si fanno odiare da’ loro popoli, e fanno ragione che il corpo loro sia fatto di un metallo, a rispetto del corpo di un povero cittadino, e non pensano che quello sia nato com’egli, e morirà molto più virilmente povero di loro; la cagione, che il povero muore con poco fastidio, per la gola non grasso, e per la lussuria mondo, il maggior peccato che puossi avere essendo la lussuria: tutte queste cose sono vizi, e però le virtù non possono se non mancare a chi è povero di amore di Dio e ricco di beni temporali. E così era il superbo Artilaro, che con la superbia credeva pigliare il cielo, e dimandava battaglia ai nemici; i suoi pregavano che pericolasse, come fanno molte città, dove i maggiori trattano male i minori, che pregano Dio che li confonda, e Dio esaudisce le preghiere degli afflitti. Ora per il suonare di Artilaro tutti quei del castello corsero alle mura. Armaronsi Guerino, Artilafo e Dionino, e tutta la gente da cavallo e da piedi, ed i duecento cavalieri che entrarono la notte, ed uscirono fuori settecento tra a piè ed a cavallo nel luogo dov’era