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vi | prefazione. |
cere di molte, tra le quali questa molto mi piacque. Onde io non voglio esser ingrato del benefizio ricevuto da Dio e dalla umana natura. Benchè dalla sua bontà riceva più che non merito, però la condizione mia è bassa; ma io mi conforto, che veggio molti di maggior nascita far peggio di me, o che sia per i loro peccati, ovvero de’ loro parenti questo non lo giudico; io solo lo lascio giudicare a Dio, dal quale siamo originalmente creati, come solo fattore, il quale infonde le sue grazie a chi più e a chi meno, secondo che per noi si acquista, chi in un’opera, chi in un’altra. Così dotato dai supremi cieli, ognuno nel suo grado può venir virtuoso in questa vita, nella quale può acquistare e imprender virtù e vizio, ma tutti più facilmente piglian la mala via, imperocchè par più facile a far male che a far bene. Quello che induce l’uomo a far male è solo il suo mancamento. Niuna cosa ne scusa per il libero arbitrio che noi abbiamo. Specchiatevi nel nostro primo padre Adamo. Avendogli Dio comandato ch’egli non peccasse, però non gli tolse il libero arbitrio di far come a lui piaceva, e così non lo tolse mai a niuno, e però siamo chiamati animali razionali, cioè, che la ragione è data a noi. Perchè niun animale eccetto questo solo, non hanno ragione in sè; ma benchè alcun dica: la mia fortuna è cosa giusta e diritta, noi non siamo diritti nelle nostre opere; che se tutti vivessero con la ragione, la fortuna loro sarebbe comune. Imperò non è da incolpar la fortuna, ma noi medesimi. E se la fortuna risplende più in un luogo che in un altro, questo avvien che noi siamo diversi istrumenti del mondo, e però ognuno s’ingegni d’imparar un buon istrumento e la fortuna glielo intonerà perfettamente, ma guardi che le corde non siano false. Imperocchè le consonanze non risponderebbono, e non sarebbe però colpa, se non di te proprio che vai senza ragione, non della fortuna. Onde io chiamo il nome dell’Altissimo Iddio e tutte le forze da lui ordinale nei cieli, che mi concedano non per dritta ragione, ma per grazia di seguire quest’opera».
Queste parole non ti rivelano il tipo di una lingua e d’una letteratura nascente, come più chiaramente apparirà in tutto il seguito del romanzo? — Questo romanzo fu già al dir del Quadrio in volgar prosa composto da certo Maestro Andrea Fiorentino, dappoichè la schiatta de’ re francesi Angioini appresso ai Normanni e agli Svevi entrò in signoria della Sicilia e delle terre di qua dal Faro; da che per entro si parla non solo di Carlomagno, che anzi solo per incidente, ma del reame di Puglia e de’ principati di Durazzo e di Taranto, d’onde si fa discendere il Meschino. Io non vo’ farmi mallevadore se fosse dapprincipio scritto in vera lingua italiana o piuttosto da tempo remotissimo dal francese in italiano voltato; ma abbraccierei meglio di qualunque altra l’opinione del Quadrio, perocchè non credo che in tempo remotissimo, quando la lingua era nel suo principio e con quel forte carattere di nazionalità, si occupassero gl’Italiani gran fatto di traduzioni; molto