Affè, amico, ecco il mio intento, e credo sia un trovato maestro. Dopo che avrete accusato mio figlio di quei piccoli falli, che saranno come le lievi imperfezioni di un bel lavoro, se colui che interrogate ha notato nel giovine taluna di quelle pecche, siate sicuro che griderà subito: «Buon sere;» oppure «Amico o gentiluomo,» secondo la frase, a cui egli sarà avvezzo o che avrà corso nel paese.
REINALDO.
Benissimo, signore.
POLONIO.
E allora, amico, fatto ciò... ciò fatto... Che cosa volevo dire? Stavo per dir qualche cosa... Dove lasciai?
REINALDO.
A «griderà subito.» a «amico o gentiluomo.»
POLONIO.
Ah! sì, griderà subito: «Conosco il giovine: lo vidi jeri o l’altro jeri, col tale o il tale; e, come dite, giuocava, o beveva, o contendeva per una partita al volante;» o, forse «lo vidi entrare nel tal magazzino» (videlicet bordello); e così via, via. Vedete ora come colla vostra esca della menzogna si prenda questo carpione della verità; e così noi, che abbiamo saviezza ed esperienza, con giri obliqui e vie rattorte sappiamo trovare la vera direzione. Per tal guisa, attenendovi ai miei suggerimenti, verrete in chiaro di tutto per mio figlio. Mi avete inteso, non è vero?
REINALDO.
Sì, mio signore.
POLONIO.
Il Signore vi accompagni; addio.
REINALDO.
Mio buon signore...
POLONIO.
Osservate voi stesso le sue inclinazioni.
REINALDO.
Lo farò, signore.
POLONIO.
E lasciategli suonar la sua musica.
REINALDO.
Sarà fatto, signore. (esce.)
POLONIO.
Addio! (Entra Ofelia.) Che vuoi dire, Ofelia? Cos’è avvenuto?
OFELIA.
Oimè, signore, rimasi così atterrita!
POLONIO.
Di che, in nome del Cielo?
OFELIA.
Ero intenta a trapungere1 nella mia stanza, signore, quando il principe Amleto... colle vesti scomposte, il capo ignudo, le calze lacere e sciolte, del colore della sua camicia, coi ginocchi che si urtavano l’un contro l’altro, e un aspetto così doloroso, come se venuto fosse dalle regioni del pianto eterno per un orribile messaggio... mi si presentò dinanzi.