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54 Atto Secondo.

Si pascon gli ampi armenti, e l’ampie greggie
Da l’uno à l’altro mare, e per li lieti
Colti di fecondissime campagne,
E per gli alpestri dossi d’Apennino.
Egli mi disse, allhor, che suo mi fece
Tirsi, altri scacci i lupi, e i ladri, e guardi
I miei murati ovili, altri comparta
Le pene, e i premij à’ miei ministri, et altri
Pasca, e curi le greggi, altri conservi
Le lane, e ’l latte, et altri le dispensi.
Tu canta, hor che sè ’n otio, ond’è ben giusto,
Che non gli scherzi di terreno amore,
Ma canti gli avi del mio vivo, e vero
(Non sò, s’io lui mi chiami) Apollo, ò Giove,
Che ne l’opre, e nel volto ambi somiglia,
Gli avi più degni di Saturno, ò Celo,
Agreste Musa à Regal merto, e pure,
Chiara, ò roca che suoni, ei non la sprezza.
Non canto lui, però che lui non posso
Degnamente honorar se non tacendo,
E riverendo: ma non fian giamai
Gli altari suoi senza i miei fiori, e senza
Soave fumo d’odorati incensi,
Et allhor questa semplice, e devota
Religion mi si torrà dal core,
Che d’aria pasceransi in aria i cervi,
E che mutando ì fiumi e letto, e corso,
Il Perso bea la Sona, il Gallo il Tigre.

Dafne
O, tu vai alto. hor sù, discendi un poco

Al proposito nostro. Tirsi Il punto è questo,


Che