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Scena Seconda. 33

Fui non so come à me stesso rapito.
A poco à poco nacque nel mio petto,
Non sò da qual radice,
Com’herba suol, che per se stessa germini,
Un’incognito affetto,
Che mi fea desiare
D’esser sempre presente
A la mia bella Silvia,
E bevea da’ suoi lumi
Un’estranea dolcezza,
Che lasciava nel fine
Un non so che d’amaro:
Sospirava sovente, e non sapeva
La cagion de’ sospiri.
Così fui prima Amante, ch’intendessi,
Che cosa fosse Amore.
Ben me n’accorsi al fin: ed, in qual modo,
Hora m’ascolta, e nota. Tirsi È da notare.

Aminta
A l’ombra d’un bel faggio Silvia, e Filli

Sedean’ un giorno, ed io con loro insieme,
Quando un’Ape ingegnosa, che cogliendo
Sen’ giva il mel per que’ prati fioriti,
A le guancie di Fillide volando,
A le guancie vermiglie, come rosa,
Le morse, e le rimorse avidamente,
Ch’à la similitudine ingannata
Forse un fior le credette. allhora Filli
Comincio lamentarsi, impatiente
De l’acuta puntura:
Ma la mia bella Silvia disse, Taci,


B     5 Taci,