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A mezz’ora di cammino di lì — attraversando la Cintura, che sta sotto la spalla — e consiste — come già dissi, in una bianca fascia per la neve eterna che ricopre le roccie trovasi la capanna che il Club Alpino Italiano cominciò sui primi di agosto 1867, e terminò il 23 dello stesso mese, a riparo degli ascensionisti del Cervino e coll’opera delle Guide G. A. Carrel, G. B. Bich, fratelli Agostino e Salomone Meynet, G. Giuseppe e Vittorio Maquignaz. — L’ingegnere ed il suo servo erano i più affaticali della comitiva e sì l’uno che l’altro vollero restar ivi. Il servo non lo importunammo, ma fra tutti si cercò infondere nuovo coraggio nel Santelli, e riuscimmo a scuoterlo, toccandolo un poco nell’amor proprio. Quindi slegato Dumini e raccomandatogli di star sveglio nell’attenderci, seguitammo ad arrampicarci su per la cresta ispidissima che doveva condurci alla «Spalla». Brutto passaggio invero e reso ancora più brutto dalla neve che ci metteva in pericolo di capitombolare ad ogni tratto. A sinistra, piomba abbasso sul ghiacciaio di Zmutt un precipizio quasi a picco ed alla nostra destra, si sprofondano veri abissi. La spalla, presenta punte acutissime dominanti un orrido vuoto.
Una raffica di vento, uno scrollo, un passo falso, basterebbero per mettere noi ed i compagni di corda in estremo pericolo. Per chi soffrisse anche poco le vertigini, la situazione si farebbe terribile e l’avanzare, impossibile. Guardammo in alto e, sulla prima vetta del Cervino (Signal Tyndall) vedemmo come basarsi il gigante alla cui conquista si muovevano i piedi nostri e le nostre mani. Tal vista parve rianimarci. «Fra poco saremo lassù» dissi fra me e me, e più forte e baldo seguitai ad arrampicarmi.
Alle ore 1,30 minuti il Sinall Tyndall era sotto i nostri piedi. Ivi è un piccolo piano ingombro da neve e ghiaccio e, su una piccola altura, costrutta dalle guide di Tyndall nel 1862, è piantata la metà di una piccola scala con cinque piuoli intieri, e sotto ad essa, sono le reliquie di una bandiera, memorie tutte dell’ardito inglese che diede il nome al picco. Queste memorie, io le assotiglio ancora prendendo un brandellino della bandiera e un piuolo della scaletta. Al colle, mi accorsi che gli occhi m’avevano ingannato e che non erano ancor sì presto terminate le peripezie ed i pericoli del nostro viaggio! Dal Pic Tyndall, bisognava discendere giù giù fino ai piedi della piramide che, impassibile e in apparenza burbera, s’elevava a noi davanti mostrando, verso il suo mezzo, la minacciosa scala di corda abbandonata lungo un’enorme roccia a picco e facente singolare risalto pel candore de’ suoi fili sul nero fondo su cui poggiava... La vista di quella scala aerea in balìa del vento e posta lassù su quella roccia, sospesa fra cielo ed abisso, mi mise i brividi... e chi sa quanti contemplandola dal Pic Tyndall, provarono la stessa emozione e chi sa quanti ancora si spaventarono all’idea di dover passare di là, cosa che ha veramente del soprannaturale.
La discesa si chiama propriamente enjambée e per superarla, fu d’uopo calarci uno a uno, a forza di corde da un masso all’altro. E sotto a noi non solo, ma a destra ed a sinistra vertiginosi abissi ci aprivano il nero loro seno tutto irto di scogli a punte di pugnale. Fin qui giunse nel 1862 Tyndall e colle guide pronunciò le parole: «Impossibile l’andare avanti.» Ma egli stesso più tardi, nel 1868, riconobbe che ivi non si rizzavano punto le colonne d’Ercole del Cervino ed il 27 luglio — accompagnato dal nostro valentissimo Jean Joseph — superava l’Enjambée, toccava la vetta della piramide superba ed effettuava per primo la discesa a Zermatt, partendo da Breil.
La cresta di monte che fummo costretti a passare per discendere l’Enjambée ha per minimo di larghezza un metro e per massimo un metro e qualche centimetro. Sotto a questa cresta ed a destra di chi la discende, si aprono orribili precipizi tagliati a picco ed al-