rendo sospetto. — Contano nei quattromila, domandammo al sergente, questi scalini senza rilievo? — Oh no, signori! — rispose con uno spietato sorriso il bravo giovanotto. — Ma allora non li facciamo! — noi gridammo. — Siamo truffati! Non eran nei patti questi altri! — Ma un’umile rassegnazione succedette subito a quell’impeto vano di sdegno e ci rimettemmo la inesorabile scala tra i piedi. Trasudavamo come due girasoli e soffiavamo come due mantici. Dalle feritoie ci venivano nelle costole dei soffi d’aria gelata, che ci facevan correre dei brividi maledetti sotto la pelle. Di tanto in tanto ci sentivamo sonar sotto i piedi il tavolato d’un ponte levatoio, messo là per tagliar la via agli assalitori nel caso di una difesa disperata all’interno. Sul nostro capo, lungo la vòlta, correva il filo del telefono che trasmette gli ordini del comandante ai presidii dei forti superiori. A destra e a sinistra, c’eran degli enormi anelli di ferro, confitti nei muri giganteschi, per farci passar le corde con le quali si tirano su i cannoni, anche i più grossi, rapidamente. Ma noi non badavamo gran fatto a tutto questo, occupati come eravamo a regolare sapientemente la nostra non soave respirazione. Avevamo una palla da cannone da dodici attaccata ai piedi, e le ginocchia ci ballavano sotto, con dei movimenti curiosissimi da cerniera di schiaccianoci, nei quali non aveva la ben che minima parte la nostra facoltà volitiva. In molti punti la scala era disfatta per lunghi tratti e il suolo tutto ingombro di calcinacci e di sassi, e ripido da doverci posare i piedi ben pari, per non