|
la scuola di cavalleria |
381 |
giunto il grado di maggiore, e finito la carriera e la vita. Egli aveva insegnato l’equitazione a tutti gli ufficiali di cavalleria dell’esercito italiano, che tutti, anche lontani e dopo molti anni, lo ricordavano sempre con affetto e con gratitudine. Maestro impareggiabile a cavallo, appassionato dell’arte sua in fondo all’anima, aveva un aspetto soldatesco, un gesto imperioso, un comando fulmineo, che parevan l’espressione d’un anima di ferro; ed era buono e ingenuo come un ragazzo. Fuori di servizio, gli ufficiali gli andavano attorno, celiando, come a un babbo buon diavolo, di cui si faccia quel che si vuole. In fatto di coltura, era rimasto poco più che soldato; maggiore, parlava ancora piemontese ai napoletani e ai toscani che s’ingegnavan di capirlo dai gesti. Ma così fatta era la stima che ispirava l’uomo e il maestro, che sarebbe parso ignobile il sorridere di quello che mancava all’ufficiale. Tutta Pinerolo lo conosceva, ed egli conosceva tutti, e passava in mezzo ai saluti e ai sorrisi della città amica, che lo vedeva tutti i giorni, da quasi trent’anni, semplice e affabile nella sua dignità matura d’ufficiale superiore, come era stato nella sua alterezza giovanile di sergente. Un giorno che egli tornava da una passeggiata, il cavallo gli s’inalberò all’improvviso, e gli cadde addosso riverso, dandogli col capo nel ventre una percossa mortale. Portato a casa insanguinato e fuor dei sensi, fu assistito dì e notte dai suoi ufficiali, che si diedero il cambio al capezzale, finchè visse. E i suoi ultimi pensieri, le sue ultime parole furon per loro. Delirando, s’affan-