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dorate immaginazioni di guerra e d’amori, di cariche vittoriose e di ritorni trionfali, che si spensero poi ad una ad una sull’orizzonte decrescente della vita, come le fiammelle d’una luminaria lontana. Ah sì, e quel fabbricone della Scuola era uggioso e quell’orario spietato; ma un verso festoso risonava in ogni parte e rallegrava ogni cosa, ed era quello che il cuore canta una volta sola in settant’anni. Ed ella pure, signorina, ha da aver per la Scuola un po’ di gratitudine, perchè qui imparò il suo tenente, e non sotto alle sue finestre, a stare a cavallo come ci sta, senza rompere la comandata perpendicolare che scendendo dalla punta della spalla e rasentando a mezza via quello che è prescritto passa a quattro dita dal tallone; e se vuol dire la verità, ella s’è prima innamorata della perpendicolare che dell’anima. E deve qualche cosa alla Scuola anche lei, signora contessa; le deve la soddisfazione che provò all’ultimo paper-hunt, di vedere il suo capitano far così maravigliosamente la volpe a traverso a fossi, e a tronchi d’alberi e a siepi, e metter tanto spazio in pochi istanti fra sè e i cacciatori, ch’ella sola, spronando a furia la morella, riescì a scoprirlo e a raggiungerlo in una solitudine verde; la quale risonò d’una nota armoniosa, che non era la nota d’un usignuolo.

Ed anche Pinerolo ama la sua Scuola, che mantien vive le sue tradizioni di città militare, e ch’è oramai così intimamente legata con essa, che al suono di quel nome — Pinerolo — passa per la fantasia d’ogni italiano una cavalcata sfolgorante di ufficiali ventenni. Ed essa li accoglie