Cividale, di Gemona, di Tolmezzo, i nati ai piedi delle Alpi Giulie, in faccia alle sentinelle avanzate dell’Austria, i campagnuoli delle terre di Venzone, che restituiscono intatte dai secoli le salme umane, i pastori cresciuti fra gli urli selvaggi del Tagliamento, e nel triste canale del Ferro, ai confini delle nevi eterne, frammisti ai biondi Slavi di San Pietro al Natisone e agli Slavi solitari dell’altopiano di Resia. Salute! Salute a voi, fratelli austeri e fedeli! Salute ai vostri operosi padri emigranti alla valle del Danubio! Salute alle vostre donne fortissime e dolci, che la fatica atterra e l’amore risolleva! Salute, Friuli bello e onorato! Tutto questo sentiva ed esprimeva confusamente la folla con le grida potenti che le usciron dal profondo dell’anima quando passaron le ultime file. E allora l’entusiasmo divampò come un incendio al soffio d’un aquilone, e in mezzo a quel delirio di tutti, nessuno s’accorse del buon Rogelli, che scaraventò il cilindro in mezzo alla piazza. Non era più il popolo d’una provincia, era l’Italia intera che salutava i suoi nuovi battaglioni, che battezzava il suo nuovo corpo di difensori, che consacrava il principio della sua storia; era la grande patria, che gli affidava solennemente i varchi della sua sacra frontiera, e gli diceva: — Confido in te, e sii benedetto! — Tutte le fronti si scoprirono, gli spettatori dei palchi sorsero in piedi, la moltitudine innumerevole agitò le braccia convulse, sprigionando un ultimo formidabile grido. E poi, come per incanto, tutto tacque. Tutti rimasero muti ed intenti a guardare quella fiumana