mano i più sodi tesori del Canavese. La folla salutò il battaglione con grida gloriose di: — Viva Ivrea! Viva Castellamonte! Viva Locana! — quando una voce stentorea dal palco vicino urlò: — Viva Pietro Micca! — Perdio, aveva ragione: v’erano nel battaglione i figliuoli della Manchester d’Italia, i compaesani di Quintino Sella; v’erano i giovani di Val d’Andorno. Mille grida echeggiarono: — Viva Micca! Viva Andorno! — E tutti gli occhi cercarono in mezzo alle file gli abitanti di quel fresco paradiso di Val del Cervo, ordinato e pulito come un parco reale, dove tutti san leggere e nessuno tende la mano; cercarono quei muratori nati, quei minatori d’istinto, quelli scalpellini partoriti apposta, che vanno a fare il gruzzolo e a onorar la fibra italiana in tutte le plaghe dei venti; altrettanti rozzi Quintini per ardimento, pertinacia e buon senso; e a tutti passarono per la mente le loro grandi ragazze, curve sotto l’ampia gerla, in cui porterebbero l’amante sulla Mologna; biancorosate che paion dipinte dal Rubens; con quegli occhi color di zaffiro, e quel fazzoletto a colori serrato intorno alla fronte bianca, e quelle maniche di camicia tagliate al gomito, che lascian vedere le braccia di lottatrici. — Ah che bellezza di battaglione! — esclamò il Rogelli. — Ah! il buon vino di Valdengo! — sospirò l’agronomo. E la signora buttò una rosa per aria dicendo: — A Pietro Micca! — E la moltitudine vibrò un lunghissimo grido, in cui si sentì un fremito d’affetto per il salvator di Torino. E tutti quei giovani passarono, sorridendo di gratitudine, come per dire