col loro cappello di feltro nero calcato baldanzosamente sur un orecchio. Mi parve di riconoscerne molti, di averli veduti ragazzi, con le racchette ai piedi, scendere per le viottole coperte di neve, che conducono a quelle povere scuole della valle, dalle cui finestre non si vede cielo. Certo v’eran fra loro dei frequentatori della Comba selvaggia, dove andavano a cacciar l’orso i principi Savoiardi, e di quei che vivono sotto la minaccia perpetua di Roccapendente, e dei nati in quel triste villaggio di Bonzo, al quale per sessantanove giorni dell’anno non si mostra il disco del sole. Quante ne dovevano aver già passate a vent’anni, quali dure prove doveva aver già vinto quella loro gagliardissima tempra! I figli dell’ultima Balme, più di tutti; molti dei quali avrebber potuto raccontare orrende istorie di parenti schiacciati dalle frane, e di tristissimi mesi di prigionia, trascorsi nelle case sepolte, in mezzo alle provvigioni accumulate come per un assedio, che poteva finir con la morte. — Qui ci son degli orfani delle valanghe, — disse il Rogelli, scotendo il capo. La signora Penrith buttò giù una manata di semprevivi. — Viva Lanzo! — gridò improvvisamente la folla. — Viva Viù! — Viva Groscavallo! — Anche i figli di Groscavallo passavano, i discendenti degli audaci minatori che i Duchi di Savoia portavan con sè nelle guerre, i figli di Chialamberto, del piano d’Usseglio, d’Ala di Stura, che scendono l’inverno a fare i brentatori o gli spaccalegna, o vanno fuori di Stato a guadagnarsi la vita coi più duri mestieri, con quell’unica suprema ambizione di